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30 ° Torino film Festival – 2012 – Chained di Jennifer Chambers Lynch (Usa, 2012) – Rapporto Confidenziale

Jennifer Chambers Lynch sembra aver trovato una nuova furia creativa dopo il lungo iato che la separa da Boxing Helena, il suo esordio cinematografico datato 1993. Se si escludono i disgraziati eventi produttivi che hanno portato la regista americana in india per la realizzazione di Hisss, film completamente alla deriva, le cui vicissitudini sono state recentemente raccontate in Despite the gods, il documentario diretto da Penny Vozniak, Chained si riconnette per certi versi a Surveillance, il ritorno della Lynch dietro la macchina da presa con la produzione esecutiva del padre.

La sceneggiatura scritta dall’esordiente Damian O’Donnell predispone uno spazio chiuso e dalle marcate caratteristiche performative per un’immagine della cattività che sembra attraversare tutto il cinema di Jennifer Lynch.  Chained, come Boxing Helena e Surveillance, è uno studio estremo sul comportamento senza l’estetica del “brutto” che caratterizzava quell’esordio cosi ingenuamente vicino alla superficie David Lynch e che oltre a riaffacciarsi prepotentemente nella fiaba horror prodotta in seno a Bollywood, rimaneva agganciata anche all’estrema tipizzazione delle figure eccentriche di Surveillance.

Più vicino agli ultimi horror minimali e mentali di Stuart Gordon (Kings of the ants, Stuck) Chained è un film apparentemente asciutto sviluppato sulla notevole capacità di Vincent D’onofrio di gestire la sua presenza fisica in uno spazio chiuso. Jennifer Lynch riduce la tentazione più pericolosa del suo cinema, quella didascalico-simbolica, rielaborandola a partire dagli oggetti dell’immaginario famigliare; la casa come luogo antimondano, un ventre dove poter trascinare all’interno tutto l’orrore possibile in una furia distruttiva che può diventare creativa solo nell’accezione di un racconto di formazione disfunzionale. Tim viene rapito insieme alla madre (Julia Ormond) da Bob, tassista,  questi, dopo aver massacrato la donna, sequestrerà il bambino per dieci anni all’interno di una casa bunker situata in una zona semidesertica. Bob, ossessionato da giovani donne che sequestra e uccide dentro questo spazio angusto, tratterà Tim come schiavo costringendolo al ruolo di figlio devoto e ribattezzandolo “Rabbit”. Come conigli minacciati da un destino senza nessuna possibilità di salvezza, le vittime di Bob sbucano all’improvviso nello spazio dove “Rabbit” è incatenato, trascinate da una porta, oppure mentre irrompono nel tinello nell’illusione di aver trovato una via d’uscita. Immagine della crudeltà che la Lynch accentua con una prospettiva che si allontana raramente dallo spazio soggettivo esperito da “Rabbit”, spettatore di un orrore privo di senso che è costretto ad assimilare come una condizione necessaria e causale. Se la forza di Chained sta tutta in questa trasformazione del cinema sfrontatamente teorico della Lynch finalmente proiettato verso un’immagine che non indulge nell’astrazione oltre lo sguardo ma che casomai la trova nell’inerzia priva di apparente significato degli oggetti, sembra ancora che il bisogno di spiegare un film di corpi con alcuni momenti fulminanti (uno per tutti, D’onofrio che prende a sassate Tim, appollaiato sul tetto della casa Bunker) sia una necessità ineludibile per la regista Americana, tanto che la contrapposizione dei due spazi famigliari, quello del padre putativo di Tim e la segregazione nell’abitazione di Bob, mette in relazione due modi di far cinema quasi incongrui, che disinnescano una conclusione che avrebbe potuto essere un’immagine terribile e potentemente illogica dello spazio casalingo che divora corpi e storie.

 

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