Home festivalcinema 49° Pesaro film festival – Kayan di Maryam Najafi

49° Pesaro film festival – Kayan di Maryam Najafi

Co-vincitore con 36 del thailandese Nawapol Thamrongrattanarit del premio New Currents alla  12° edizione del Festival Internazionale del Cinema di Busan presieduto da Bela Tarr, co-prodotto dal regista iraniano Amir Naderi, Kayan si presenta al pubblico con crediti importanti, qualche perplessità da parte della critica e un’iscrizione sicura in un genere femminile che, se fa capo a Caramel della regista libanese Nadine Labaki, non ne ha però il disincanto venato di leggerezza.
Quello che si avverte carente nel film è uno scatto più deciso, che lo distingua nel prolifico filone mediorientale con storie al femminile. Frammenti di vita quotidiana sono assemblati con rapidi tocchi impressionistici, mini-drammi familiari e questioni etniche si fondono in un flusso continuo di dissolvenze incrociate, ma la sensazione è che manchi di mordente e la figura centrale della protagonista non basti da sola a reggere tutta la scena.
Najafi filma personale e clientela reali di Kayan (in arabo libanese “esistenza”), bar/ristorante alla periferia di Vancouver, luogo di ritrovo multietnico per immigrati di varia provenienza.
Racconta la regista, nella serata di presentazione del film a Pesaro, di aver frequentato a lungo il locale e stretto amicizia con la proprietaria. Dunque presa diretta sul reale condito di storie fantastiche ma verosimili.
Ci si dimentica di essere in America, avvolti nel fumo del narghilè, mentre la ballerina, ingaggiata a ore per qualche serata, si dimena in una esotica danza del ventre. La musica mediorientale, insinuante e sensuale, domina la scena, alternandosi in un curioso mix extraterritoriale con brani di flamenco di una band di passaggio. L’America è fuori, luci notturne ai lati dell’autostrada, brevi sequenze di un mondo estraneo da cui sembra che Kayan offra un rifugio.
Si balla, ci si addormenta sui divanetti, si beve da ubriacarsi per dimenticare, la vita passa con le sue storie qualsiasi nel piccolo locale, sotto gli occhi vigili di Hanin.
Hanin (Oula Hamadeh) è la proprietaria, donna libanese di mezza età, divorziata con due figlie adolescenti. Ha bisogno di soldi per pagare i debiti e crescere le ragazze, dare stipendi ai fedeli dipendenti e non mollare.
Una piccola girandola le gira intorno al ritmo di una danza derviscia. Lei regge bene, in precario ma tenace equilibrio sulle sue scarpe dal tacco altissimo, mentre un rapido ma immancabile sguardo allo specchio la convince ad andare avanti. Dal cellulare esce spesso la voce di un fidanzato, che capiamo più giovane di lei e bisognoso di soldi. Non lo vedremo mai, mondi effimeri si toccano per un attimo, la voglia di esserci ancora sopravvive, ma sul viso cominciano ad apparire i segni del disincanto.
Oula Hamadeh dà giusta intensità al personaggio di Hanin, di lei non sappiamo nulla, il suo retroterra sembra assorbito da un presente totalizzante, e anche sul presente la donna collabora a disperdere le tracce (capiamo da indizi minimi, all’inizio del film, che ha scoperto di essere incinta).
I titoli di coda appaiono su un finale aperto, ma nessuno si chiederà come andrà a finire. Non è un racconto, è vita che scorre con i suoi piccoli misteri irrisolti, qualche lacrima, qualche gioia, tante carote e zucchine sul tagliere da affettare per i clienti che portano soldi (come, appunto, non manca di sottolineare la giovane voce maschile al cellulare).

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