Home news Alice nel paese delle Meraviglie di Tim Burton (USA 2010)

Alice nel paese delle Meraviglie di Tim Burton (USA 2010)

La bimba sussiegosa che si era avventurata attraverso lo specchio è ora una ragazza inquieta alle soglie dell’età adulta, soffocata dalla stretta del corsetto e di un imminente matrimonio combinato. Fuggirà dall’inamidata cerimonia pubblica del suo fidanzamento , attirata dallo sfumato ricordo di un coniglio col panciotto, per schiarirsi le idee nell’alveo onirico della sua infanzia. Quello che Alice vi troverà sarà una saga fantasy tutta per lei e una moraletta di blando anticonformismo, che prende le mosse dalla follia come antidoto all’ipocrisia per risolversi goffamente in quel che sembra un elogio all’intraprendenza colonialista. Pensando forse di adattarlo al gusto attuale, Burton trasforma il Paese delle Meraviglie in una Narnia qualsiasi, riorganizzando il millimetrico caos di paradossi satirici, nonsense e calembour dei libri di Carroll in un più tradizionale intreccio epico: c’è il Bene e c’è il Male, la Regina Rossa è una tiranna usurpatrice, la combriccola del Cappellaio una cellula della resistenza, il Jabberwocky della filastrocca (discutibilmente tradotto Ciciarampa in italiano) diventa un drago minaccioso che la paladina bionda dovrà affrontare armata di spada. Burton, dopo gli esperimenti di Sweeney Todd, si dimostra definitivamente rapito dai prodigi del CGI, sfrutta il 3D di postproduzione per un paio di sobbalzi in platea e si diverte a farci spalancar la bocca tra decòr vittoriani, policromie caramellate, vampe e parrucche fiammeggianti e desolazioni apocalittiche.Ma proprio come la boccoluta protagonista (interpretata dall’insipida Mia Wasikowska) si trova ad essere sempre troppo grande o troppo piccola per le stanze in cui si muove, anche la sceneggiatura e i toni registici sembrano soffrire di un’eguale mancanza di misura: l’equilibrata amalgama di cupezze gotiche e fantasiose leggiadrie a cui ci ha abituato il regista californiano si frantuma così in una sequela disarmonica di pomposità guerresche e gag ammiccanti, che culminano nella squinternata e stucchevole danza finale del cappellaio Depp. Non è però forse un caso che tra in un accumulo di personaggi accennati per gusto di citazione o stravolti per capriccio di moda, si riesca a scorgere la mano empatica di Burton proprio nel ritratto della sovrana cattiva interpretata dalla Bonham Carter: sanguinaria per sventura (come il barbiere Todd), deforme dalla nascita e circondata dalla condiscendenza e dal dileggio dei cosiddetti normali (come Edward), tiranneggia per vendicare il torto di un’infanzia infelice (come quella di Willy Wonka) in cui tutti le preferivano il bell’aspetto e i modi svenevoli della bianca sorellina. La vittoria di quest’ultima somiglia tanto alla vittoria della produzione Disney sulla regia di Burton. Siamo sicuri che Alice non si sia schierata dalla parte sbagliata?

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