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Amabili resti – di Peter Jackson: recensione

Un bacio e l'abisso. Sul bellissimo "Amabili resti" di Peter Jackson

Tutto il visibile nel cinema di Peter Jackson subisce un rovesciamento continuo, come se il diaframma di un vero e proprio “cold heaven” fosse un occhio senza palpebra e con una prospettiva omnidirezionale, immersiva, un green screen senza i limiti del trucco a due dimensioni dove le immagini a un certo punto si liberano e di nuovo collidono.

Basta pensare alla corsa scoscesa e furibonda tra mostri e rocce nella sua versione di King Kong, con le immagini che cadono letteralmente una sull’altra in un uso selvaggio e furioso del digitale, non così diverso dall’esplosione delle forme nei film degli esordi.

“Amabili resti” è in questo senso il film più sorprendente ed estremo di Peter Jackson, un’evoluzione complessa che sviluppa in altre direzioni il nichilismo di “The Frighteners”, forse il film più disperatamente ateo del regista Neozelandese, specchio rovesciato e con due sole uscite (l’alto e il basso) rispetto a “Lovely Bones”,  e quell’abbraccio tra libertà e morte che costituisce l’asse spinale di “Heavenly Creatures”.

Quello di “Amabili Resti” non è un Peter Jackson riconciliato, tantomeno addomesticato; la scelta di immergere le immagini nell’irrealtà liquida del Brian Eno a cavallo tra pre-new wave e ambient porta con se i semi di un esperimento inquietante e commovente come i processi induttivi che sono alla base delle oblique strategies concepite da Eno stesso insieme a Peter Schmidt; espediente matematico e libero della composizione.

E’ la scrittura che in “Amabili resti” procede per sbalzi e riverberi con un procedimento che fa dell’anti climax l’occasione per scatenare uno spazio continuamente minacciato dall’instabilità. Sono soglie e schermi lacerati senza freni e limiti quelli che Jackson allestisce, ogni immagine è come minimo spaccata in due; non solo nel movimento verticale di derivazione Spielberghiana ma anche nella composizione delle inquadrature apparentemente più innocue, sin dai primi splendidi minuti, dove Susie bambina è scrutata dal limite di un tavolo, ostacolo tra se e il mondo, tra la sua libertà e quel paradiso tenero e agghiacciante che imprigiona il pinguino nella palla di cristallo, o ancora nella proliferazione di specchi, finestre, vetri infranti che ricordano i palindromi Lynchiani o le Mirror Mask(s) di Dave Mckean, processo creativo tra immagine e simulacro che dal livello tecnico passa direttamente alla soglia mentale e filosofica.

Se c’è un cinema che oggi si avvicina a quello del Peter Jackson di “Amabili Resti” è una sintesi complessa che dall’oceano sovrannaturale di Mrs. Muir e al rovescio inquietante della Wonderful Life di Capra passa appunto per Lynch fino alle stratigrafie di Mckean e  agli spazi iperbolici di Kazuaki Kiriya, geniale e visionario autore Giapponese appiattito dall’amore di una critica modaiola troppo attenta alla fascinazione del visivo, la stessa che con molta probabilità sparerà a zero proprio su questo film di Jackson.

Questo limen tra realtà e visione ritrova uno specchio sonoro conosciuto bene anche da Lynch; la versione di Song to the siren rielaborata per il progetto This Mortal Coil, trasforma le liriche di Tim Buckley in un’algida reverie sulla volatilità della memoria, complice il timbro alieno di Liz Frazer, il testo sembra lo stesso, ma non è così: Here I am, here I am waiting to hold you / Did I dream you dreamed about me? /Were you here when I was full sail?

In una delle sequenze più dolorose di Amabili Resti, dolorosa perchè ancora una volta sdoppiata e inestricabile, Jackson sovrappone tenerezza e morte con un senso della profondità di campo che riconduce l’irrealtà di due mondi allo specchio nella consistenza vitrea dello sguardo scopico; Susie desidera un bacio e sullo sfondo la cassaforte-bara con i suoi resti precipita lentamente in un baratro oscuro.

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