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Berlinale 2013 – Berlinale Special – Top of The Lake di Jane Campion (Australia, Uk – 2013)

Realizzato come mini-serie per la televisione e costituita da sei puntate , Top of The lake è una produzione Anglo-Australiana interamente girata in Nuova Zelanda; la recensione di Michele Faggi

Jane Campion torna dietro la macchina da presa dopo la forma poetica e minimalista di Bright Star, il film ispirato alla poesia di Keats e particolarmente legato alle impercettibili epifanie della luce naturale. Top of The Lake è un progetto più imponente e si apre al paesaggio in una prospettiva ampia e complessa rispetto alla chiusura intimista del film precedente. Realizzato come mini-serie per la televisione e costituita da sei puntate , Top of The lake è una produzione Anglo-Australiana interamente girata in Nuova Zelanda; la Campion oltre ad essere la produttrice esecutiva dell’intero progetto, ha scritto la sceneggiatura insieme ad un suo vecchio collaboratore, quel Gerard Lee che aveva scritto per uno dei primi corti della regista Neozelandese, Passionless Moments, e per il suo primo lungometraggio destinato alle sale girato nel 1989, Sweetie. Dei sei episodi la Campion ha diretto interamente il pilota, il quarto episodio e il sesto, i rimanenti sono affidati alla regia di Garth Davis, con un metodo non dissimile da quello di Lynch per alcuni episodi di Twin Peaks, affidati ad assistenti come Duwayne Dunham; questo per dire che le differenze tra le due direzioni non sono così percettibili e la tenuta complessiva del progetto, sul piano delle scelte, delle ambientazioni, dello stile e dei dettagli,  è certamente riconducibile alla scrittura della Campion. Introdotto da una sequenza di animazione realizzata con uno stop motion dalla morfologia pittorica, non molto distante dai frammenti animati del suo primo cinema, Top of the lake dispone da subito tutti gli elementi di una disturbante e complessa saga antropologica che recupera quella relazione difficile tra natura, follia, paternità e meternità e che attraversa in un modo o in un altro tutto il cinema della Campion, sfiorando qui una metafisica (ma vorremmo dire, un anti-metafisica) dalle radici quasi Ctonie che a tratti ricorda alcuni tra i passaggi più alchemici di Angela Carter, ma anche la Fay Weldon di Puffball, settimo romanzo della scrittrice inglese scritto nel 1980 e ambientato nell’inghilterra rurale, e da cui Nicolas Roeg ha tratto quello che è a tutt’oggi il suo ultimo film. Con uno sguardo indietro al migliore cinema Australiano degli anni Settanta, il paesaggio che circonda la piccola comunità Neozelandese di Top of the lake è quello del Queenstown, luogo circondato da montagne impervie e che concentra il punto di massima energia nelle acque del lago Wakatipu, ventre primordiale che assume un significato centrale nella mini-serie della Campion, filmato più volte come un attrattore di energie complesse, ne positive ne negative, ne generative ne distruttive, esattamente come se fosse un richiamo ancestrale verso le origini di una nascita anteriore al tempo stesso. La natura diventa allora luogo di astrazione immaginifica e visionaria, inghiottisce le azioni dei personaggi, li fonde con una vastità inafferabile tanto da stabilire una relazione ambivalente, tra comunione e rifiuto. Robin Griffin (una splendida Elisabeth Moss) è un agente investigativo sulle tracce di alcuni abusi infantili; trova oltre la riva del lago una bimba di 12 anni, immobile, quasi volesse farsi sommergere dalle acque; dopo averla trascinata fuori dall’acqua, scoprirà che questa è incinta di cinque mesi. Il padre (Peter Mullan) è il violento proprietario di una radura in mezzo alle montagne, chiamata Paradise, dove si sono stabilite un gruppo di donne, strette intorno a GJ, un bizzarro guru interpretato da Holly Hunter e modellato, per stessa ammissione della Campion, pensando ad una forma quasi parodica del suo aspetto attuale (lunghi capelli bianchi e una postura sciamanica). In questo contesto, la Campion delinea una narrazione ricca di depistaggi, che pur muovendosi intorno ad una lunga catena di abusi che affondano le loro radici nell’origine della famiglia nucleare, si allarga sempre di più verso una prospettiva originaria di relazione con la terra; non sono solamente i riferimenti espliciti all’autoregolamentazione del corpo a cui GJ si riferisce continuamente, ma anche una serie di allusioni che scambiano progressivamente di posizione il mondo animale con quello dei nuclei organizzati, tanto che in momenti diversi, senza che sia necessario svelarne la collocazione, la piccola di 12 anni sibilerà furiosa come un gatto per proteggere il suo territorio, il padre interpretato da Peter Mullan si scoperà licheni e gli alberi di una foresta insieme a una delle donne del Paradise, e in un momento tra orrore e commozione, dopo che la natura si è appena inghiottita un bimbo inerme, la carovana del Paradise, che ricorda un’estensione comunitaria del ventre-Roulotte di Janet Frame, intona Joga di Bjork brano sulla percezione della natura come “paesaggio emozionale” che spinge continuamente chi la abita ad una metamorfosi tra terra e spirito. Questo continuo “stato di emergenza”, attraversa un’opera possente, ricca di segni grafici, spaccature del terreno, aperture improvvise dell’immagine; basta pensare ai tatuaggi rituali che disseminano i corpi maschili, come fossero tracce scritte di una tradizione che mette in relazione la natura con l’unica esperienza cognitiva possibile, quella dell’intelligenza del corpo, a dispetto delle deviazioni della mente, a cui GJ allude tutte le volte, improvvisando una metafisica rovesciata, senza scampo e soluzioni escatologiche se non quelle di un ascolto costante di qualsiasi mutazione molecolare riguardi il nostro corpo e la sua relazione con la natura. E’ il corpo stesso della Hunter del resto, che si racconta come colpita da una calamità che ha cambiato ogni sua cellula (sono uno Zombie, dirà), oppure è il tumore della madre di Robin, ultimo stadio della mutazione di un corpo, e ancora  la catena orribile di stupri che genera nuova vita, l’azione distruttiva del maschio che divora i propri figli. Ma quello che sorprende in Top Of the Lake è come l’immagine sia sottoposta a continue inversioni, accumulazioni e sottrazioni di senso, corpi sorpresi tra gli elementi della terra e una proiezione dello spirito che passa sempre attraverso questa; tant’è, nelle numerose declinazioni della follia la Campion con Top of The lake sembra approdare a quel “neorealismo Lynchiano” che recupera processi cognitivi e interiori assolutamente realistici nelle loro manifestazioni. Opera crudele e commovente, Top of The Lake ci mostra l’ambiguità delle proprie radici come le uniche in grado di conciliare stupore e orrore in una comunione necessaria con gli elementi; e lo fa anche attraverso una ricca antropologia femminile, catturata in una continua mutazione del corpo e dell’immagine, mostrandoci la furia di una bimba selvaggia che trova rifugio nella foresta, i corpi nudi di donne anziane in una relazione stretta con gli eventi naturali quasi fossero manifestazioni di un panteismo che è alle origine delle cose; rispetto a tutto questo,  l’abuso in fondo, sembra dirci la Campion, nasce da un pericoloso disconoscimento di questo difficile equilibrio; violentati tutti dallo stesso padre, ci si può salvare quando resucitiamo per il corpo di un’unica madre.

RASSEGNA PANORAMICA
Voto
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Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi
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