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Berlinale 2013 – W imie – in the name of – di Malgoska Szumowska (Polonia, 2013)

La natura è indifferente, sembra volerci suggerire Malgoska Szumowska, introducendo il suo  nuovo film con un gioco tra bambini e ritardati mentali condotto sul confine sottile della crudeltà; mentre i primi provano fino a dove può spingersi la ripetizione di un gesto automatico, gli “idioti” non possono far altro che fidarsi e accettare questa violenza potenziale come una relazione naturale tra causa ed effetto; tra la malizia di una richiesta e il gesto di mangiare un pugno di formiche, c’è una complementarità inscindibile tra male e bene, tra deviazione e natura. Nel solco di una tradizione come quella di chi  si è formato all’interno della scuola di Lodz, la Szumowska insiste sulla trasformazione della realtà in simbolo nella ricerca ossessiva di un passaggio tra documentario e poesia, come se la forza di un’immagine risiedesse non tanto nella sua ambiguità ma nell’evidenza di una poeticità esibita.  Era il problema di Elles, il film precedentre della regista Polacca di cui avevamo parlato da questa parte ed è lo stesso impasse di questo W imię.. , operina a tesi ambientata nella provincia rurale Polacca, dove un sacerdote sottoposto a continui trasferimenti, dovrà portare la presenza di Cristo in un contesto difficile, selvaggio e fuori dalle convenzioni comportamentali dei grandi centri . “Sotto il sole di Satana”, padre Adam è sorpreso dalla Szumowska mentre lava i piedi ad un giovane innamorato di lui; disteso su un letto nella stessa postura del cristo di Mantegna oppure sullo stesso giaciglio, abbandonato in mezzo alla vastità della foresta, e ancora mentre scopre un diverso contatto con la natura facendosi esso stesso “idiota”, mimando gesti e suoni di un orango in un campo di granturco mentre gioca a rimpiattino con il ragazzo con il quale sta nascendo una reciproca attrazione. Divorato dal dubbio, dalla solitudine, dalla tentazione e da una natura ostile e difficile, beve come una spugna, si ubriaca pesantemente e balla nella sua stanza stringendo un quadro di Joseph Ratzinger. Osservato attraverso uno schermo più sporco rispetto all’immagine opaca di Elles, “in the name of” vive della stessa artificiosità “verbale” dell’immagine, cercando di caricare  i segni di un senso da applicare e sovrapporre all’ambiguità dello sguardo. L’invisibile per la Szumowska è un già detto.

 

 

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