Home approfondimenti Berlinale 61 – A Torinói ló di Béla Tarr

Berlinale 61 – A Torinói ló di Béla Tarr

Béla Tarr confina l’episodio sul primo e leggendario segno della follia Nietzschiana solamente nello spazio nero che introduce il suo nuovo film; una voce fuori campo racconta quello che da mesi era già stato diffuso dalle sinossi ufficiali mentre sullo schermo c’è solo oscurità. E’ la musica infernale del fedele Mihály Vig che stacca, sostenendo ossessivamente un lunghissimo piano sequenza di un cavallo in corsa nel pieno di una tempesta; il bianco e nero di Fred Kelemen sin da subito scolpisce motivi complessi che diventeranno ossessivi e percepibili come delle vere e proprie textures fatte di materia, dalla pelle del cavallo agli oggetti quotidiani filmati da Béla Tarr con andamento rituale e con una riduzione dei dialoghi ancora più radicale del solito.

E’ una cosmogonia rovesciata quella del suo nuovo film; all’interno di una casa isolata in mezzo alla puszta ungherese il vecchio cocchiere (János Derzsi) vive con la figlia (Erika Bók) nei sei giorni in cui il film è diviso, Tarr trasforma i gesti più comuni in movimenti di possente ritualità, la conservazione dell’ultima luce in un mondo sprofondato nell’oblio; la figlia veste e prepara il padre ogni giorno per le ore dedicate al lavoro, pulisce la stalla della cavalla, gli offre da mangiare ma questa, non toccherà mai cibo; ogni giorno cucinerà due patate e con le mani nude, insieme al padre, le sbuccerà per mangiarle ancora bollenti. Al centro di un cataclisma naturale che non smette mai di urlare, la terra si prosciuga progressivamente e gli unici passaggi umani sono quelli di un gruppo di zingari e di un viandante che porta con se un messaggio esplicito che si riferisce alla fine di quella che conosciamo come umanità.

Tarr cambia costantemente il punto d’osservazione, soprattutto nella ripetizione degli stessi motivi, ancora una volta e in modo forse più scabro e fulgido si entra in contatto con il suo cinema come durante una pratica di meditazione; cos’è in fondo la resistenza di questi sopravvissuti all’oscurità che divora lentamente tutto il film se non una luce che con il semplice e disperato attaccamento alla terra mantiene ancora un contatto con il pensiero e con un’immagine pura?

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