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Berlinale 62 – Concorso – Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani (Italia, 2012)

I fratelli Taviani portano in concorso a Berlino 62 Cesare deve Morire, film che si inserisce in quella lunga tradizione di re-invenzione dei Classici legata per certi versi al Cinema dei due registi Toscani; dopo Tolstoj, Goethe e Pirandello, i Taviani scelgono Shakespeare, definito in diverse interviste come un grande punto di riferimento (padre, fratello e, ora che sono avanti con l’età, figlio). Cesare non deve morire è un testo complesso, sullo sfondo di un contesto sociale come quello delle carceri si innesta infatti uno stimolante elemento metalinguistico. Nella rappresentazione del Giulio Cesare di Shakespeare messo in scena dalla compagnia Teatro Libero di Rebibbia, costituitasi nel 2007 con il patrocinio della provincia di Roma, detenuti ed ex detenuti del carcere affrontano la recitazione, coadiuvati dal maestro Fabio Cavalli, che partecipa al film dei Taviani in qualità di sceneggiatore aggiunto e interprete. Ed è proprio durante alcune di queste rappresentazioni che i due fratelli si innamorano dell’impostazione del Teatro Libero e decidono di elaborare un testo filmico a partire da Shakespeare. La congiura contro Cesare e  quella della successiva battaglia di Filippi come  storie di potere, delitti, tradimento perdono il semplice valore rappresentativo e diventano passato e identità vive dei detenuti; in questo senso non c’è interesse da parte dei Taviani a identificare colpe e responsabilità quanto a rivelare una relazione stretta tra la loro vita e la performance attoriale. Nel lavoro sulla sceneggiatura i Taviani replicano la prassi adottata dalla compagnia in questi anni: audizioni, prove e rappresentazioni davanti al pubblico, ed è proprio nel contesto della preparazione che il limite tra il testo teatrale e la realtà della prigione viene a sfaldarsi. I detenuti seguono un processo di immedesimazione con i personaggi Shakespeariani sovrapponendo rappresentazione, fabula, nostalgie e frustrazioni personali. Queste occorrenze non sono divagazioni, ma veri e propri elementi intradiegetici; il popolo delle carceri diventa il nuovo foro di Roma e la tragedia si sviluppa fino al suo naturale epilogo, il suicidio di Cassio e Bruto. 
 Ma al di là del contesto, il film ha un’impostazione tutt’altro che documentaria, i Taviani seguono infatti la via della drammatizzazione a scapito del realismo. Innanzitutto la scelta del bianco e nero ad eccezione delle scene in cui la tragedia viene rappresentata a teatro, in secondo piano la scelta della lingua, dove ciascun attore viene lasciato libero di esprimersi nel proprio dialetto; non si tratta di una semplificazione del testo originale, ma di una differente codificazione che rimanda direttamente a Pasolini e alle sue intuizioni sulla letterarietà del dialetto. Ed è attraverso  il teatro che i detenuti scoprono davvero l’esperianza della prigionia, rendensosi conto che la loro cella è davvero una prigione.

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