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Cannes 65 – un certain regard – Miss Lovely di Ashim Ahluwahlia (India, 2012)

Nella Bombay anni ’80, Sonu lavora come sottoposto del fratello Vicky in un team di produzione di film porno e b-movie perfettamente contigua con lo sconfinato sottobosco di miseria e sfruttamento della prostituzione della metropoli indiana. Mentre cerca disperatamente e con i mezzi più meschini di assurgere al rango dei boss che lo controllano, Sonu sogna di affrancarsi da quell’ambiente e girare un film romantico con una ragazza notata per caso in treno. Dopo essersi fatto conoscere con il documentario John and Jane (2005), sul mondo dei call center indiani attivi in America, Ashim Ahluwahlia si presenta sulla croisette con il suo primo lungometraggio di finzione, una proposta di cinema indiano Off-Bollywood innervato da un’estetica ruvida e antisofisticata, in aperto antagonismo con l’egemonia di balletti, moine e sentimentalismi da soap opera che hanno ormai marchiato a fuoco la cinematografia indiana come tratto ipercitabile e immediatamente riconoscibile dell’intera industria. Oltre all’ambientazione realistica e decadente, I frequenti e sgranati totali dei grigi complessi industriali, la camera a mano traballante e in continuo movimento, l’insistenza su umiliazioni dei personaggi concorrono allo scopo di svincolarsi dall’idea massificata di cinema indiano, europeizzando o quantomeno autorializzando il film, con un’insistenza effettistica che in alcuni casi rischia di capovolgersi rivelandosi già maniera. In questo tentativo tutto sommato riuscito di trasmettere la sensazione di infernale e inaggirabile sporcizia della Bombay di trent’anni fa e degli ambienti sordidi in cui poteva muoversi quel cinema a luci rosse, Ahluwalia ha una buona intuizione nel sottolineare la grana amatoriale e i difetti dei supporti video di quegli anni (e di quel contesto geografico e sociale) esposti nei monitor e nelle sale come reperti, macchiati di rumori bianchi, disturbi del colore e del sonoro. La Miss Lovely del titolo, non a caso, nel finale amarissimo è incorniciata per contrasto nello splendore luminoso di un video musicale novantesco, uscita esteriormente indenne dal fango e dalle tragedie che travoglono invece gli altri portagonisti. Ma se il lavoro di setting e atmosfera può risultare interessante, molto lascia a desiderare nel racconto e nei personaggi: concentrato su caotici e vorticosi movimenti di camera e di corpi, il film si smarrisce in incongruenze cronologiche, svolte confuse e accumulo di scene per l’appunto volte più ad evidenziare disagio e corruzione morale che a costruire una parabola credibile per i personaggi e per la rilevanza della storia raccontata, che finisce per risultare solo poco più autentica dei melodrammi canterini della Bollywood che, nelle parole del regista prima della proiezione, rappresenta lo stereotipo che il suo cinema si propone di cancellare.

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