venerdì, Aprile 19, 2024

Cogan – Killing them softly di Andrew Dominik

La pioggia battente di Cogan è il chiaro segno di una profonda urgenza di pulizia nell’America contemporanea. Fin da subito ci ritroviamo dinanzi a spazi urbani, edifici, superfici e corpi ammorbati da una sporcizia cronica. Un panorama da basso impero – siamo nell’America del 2008, prima della nomina a presidente di Barack Obama e umori imbevuti di nichilismo utilitaristico sono già due ingredienti dell’antipasto di un’apocalisse sociale, che appare sempre più prossima.

Le intermittenze del montaggio, che si vedono nella sequenza d’apertura, suggeriscono un itinerario di instabilità percettiva che acuisce la sensazione di una realtà in cui è arduo, se non impossibile, orientarsi e comprendere gli eventi, intuire le intenzioni degli altri, l’esito delle proprie azioni. Come se si trattasse di una realtà ontologicamente frammentata che si sottrae alle urgenze dello sguardo. A New Orleans, Frankie (Scoot McNairy) e Russell (Ben Mendelsohn), due untissimi furfanti di mezza tacca, ricevono una soffiata da un faccendiere della malavita (Vincent Curatola) e rapinano una bisca clandestina, lasciando ricadere la colpa su colui che la gestisce, Markie Trattman (Ray Liotta), che già una volta aveva ripulito le tasche dei suoi clienti, e del quale tutti saranno pronti a sospettare di nuovo. Ma Russell, il più balordo della coppia, con la complicità di qualche trip d’eroina di troppo, si vanta del colpo con la persona sbagliata. Nel giro di poco, la notizia circola negli ambienti della mala, e un boss (Sam Shepard) seriamente danneggiato dalla rapina, assolda un killer da fuori, il sofisticato e carismatico Jackie Cogan (Brad Pitt), spietato negli affari e al tempo stesso “magnanimo” nel concedere alle proprie vittime un’uccisione dolce, come si evince dal titolo originale.

A far da sfondo a questa storia pulp: i discorsi elettorali, l’appello ai valori liberali degli States, l’idealismo e le promesse di Obama, in corsa per la White House, che furoreggiano in tv e alla radio. Dopo il western revisionista, L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (2007) – prova deludente che però rivelava l’indubbia perizia filologica del regista nel trattare i generi e la storia del cinema –  Andrew Dominik realizza una crime story derivativa, non distante dall’operazione condotta da Nicolas Winding Refn con il suo Drive (2011), ma con una marcia in più: una sceneggiatura impeccabile. L’insaziabile pulsione cinefila (e cinefaga) non basta (più), e Dominik ne è ben consapevole. Perciò, forte della solidità del romanzo di partenza di George V. Higgins – autore che abbiamo già  visto magnificamente trasposto su schermo nel ’73, con Gli amici di Eddie Coyle di Peter Yates, in cui brillava, tra l’altro, un superlativo Robert Mitchum – pilota scaglie di cinema preesistente con una scrittura di esattezza millimetrica e dal ritmo incalzante, che dosa lucidamente attese e climax, sapendosi rendere seducente in ogni segmento narrativo. Gli accenti ironici della prassi postmoderna vengono alla luce per mezzo di parossismi stilistici, molto spesso convincenti (vedi l’eliminazione di Ray Liotta, dove la ripresa al ralenti segue il corpo dell’attore sbalzato qua e là nell’abitacolo, con Love Letters di Ketty Lester in soundtrack), e in un solo caso gratuite (Mendelsohn che si buca con seguito di effettismi allucinatori).

Gli scoppi di iperviolenza arrivano in maniera imprevedibile, per mezzo dell’azione depistatrice di dialoghi paradossali o farneticanti, d’impronta inevitabilmente tarantiniana, che manipolano di continuo le previsioni dello spettatore. Gli habitat malavitosi in cui ci porta Dominik riecheggiano quelli del sottobosco di Quei bravi ragazzi (1990) e Casinò (1995), film gemelli della coppia Scorsese e Pileggi: non a caso troviamo uno dei goodfellas, Ray Liotta, in un personaggio che sembra, appunto, una variazione ipertestuale dell’Henry Hill scorsesiano.

In Cogan, viene nuovamente ribadito che il credo più diffuso della terra di Zio Sam, risponde ancora allo slogan “dollars and guns”. Con l’aggiunta che finanche la manovalanza del crimine, di questi tempi, non è immune dal precariato: McNairy, a corto di denaro, prega incessantemente Curatola di affidargli un “lavoretto”, come se si trattasse di un ufficio di collocamento; Pitt, invece, a lavoro ultimato, viene sottopagato dai suoi mandanti. Che la speranza sia qualcosa di praticamente inconcepibile, in un contesto del genere, ce lo dimostra James Gandolfini, nella parte di un melanconico sicario – che non può non ricordare le nevrosi di Tony Soprano – sul viale del tramonto, con problemi coniugali, la cui vita gravita ossessivamente attorno ad alcol e sesso, già intaccato da una prematura senescenza che ha il gusto amaro di una volontaria e dolente eclissi della coscienza.  Se fino ad oggi Dominik era stato  etichettato dai più come una promessa del cinema non ancora mantenuta, Cogan segna senz’ombra di dubbio una svolta, non solo stilistica, che convince e rinnova le aspettative per il futuro.

Diego Baratto
Diego Baratto
Diego Baratto ha studiato filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è laureato con una tesi sulla concezione del divino nella “Trilogia del silenzio di Dio” di Ingmar Bergman. Da sempre interessato agli autori europei e americani, segue inoltre da vario tempo il cinema di Hong Kong e Giappone. Dal 2009 collabora con diverse riviste on-line e cartacee di critica cinematografica. Parallelamente scrive soggetti e sceneggiature.

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