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Contagion di Steven Soderbergh (Usa, 2011)

E’ un testo virale portentoso l’ultimo film di Steven Soderbergh, cineasta troppo spesso sottovalutato da un punto di vista filosofico e sopravvalutato per questioni che interessano molto poco chi scrive, quali l’impegno civile, la confezione politica dei suoi film e tutto quello che rimane fuori dall’ambiguità della visione, sostanzialmente per soddisfare il critico a caccia di “contenuti”. Che il suo cinema sia una costante ricerca sulla percezione è chiaro per lo meno sin da Kafka, film sul rovescio della palpebra che sposta continuamente il rapporto tra immagine e produzione della stessa. Contagion allora è davvero un lavoro di fenomenologia del contagio che non può certo essere inteso nel suo significato di social sharing, ovvero in un contesto dove sia in gioco la trasmissione di sistemi emozionali; quello che interessa al regista Americano è seguire i processi di propagazione di testo e immagine digitali, emozioni e memorie incluse come elementi dell’informazione, nell’ipotesi che il virus sia una proliferazione più che una moltiplicazione del punto di vista. Soderbergh non risparmia neanche Gwyneth Paltrow, supposta origine di un virus planetario e cadavere con il cranio scoperchiato dopo circa dieci minuti dall’inzio del film; trasformata in una forma pervasiva di infezione digitale, si manifesta come insieme complesso di dati, attraverso le memorie del marito (Matt Damon) e nel recupero dei video di sorveglianza catturati dai dispositivi a circuito chiuso di un casinò cinese. Soderbergh torna a quel punto di vista delle macchine di riproduzione digitale che costruivano lo spazio ottico di Girlfriend Experience, ma lo fa con un immagine che è sempre in ritardo o in anticipo rispetto alla sorgente, perchè non ne fa più parte, come gli organismi virtuali autonomi che si scollano dall’apparato mnemonico del montaggio nel New Rose Hotel di Abel Ferrara. E’ spaventoso l’abisso scoperchiato da Contagion, abitato da schegge di tempo frattale, introduce immagini che sembrano guardarci dal passato ma che in verità, esattamente come un organismo virale, proliferano in una curvatura indipendente, cosa sarebbe altrimenti quella sovrapposizione apparentemente crudele e gelida che affianca la Prom Night privata e intima della figlia di Matt Damon sulle note di All i Want is You degli U2 con la persistenza di Gwyneth Paltrow che ci osserva dal “Day 1” di una serie ormai non più cronologica, come se si trattasse di un sistema caotico autonomo?

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Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi
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