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Cosmopolis di David Cronenberg: la ricerca del rifugio da se stessi

“Ho reso la mia limousine insonorizzata, tramite del sughero, per non sentire i rumori della città”

“E ha funzionato?”
“Ovviamente no, ci sono rumori del diciassettesimo secolo che ancora non si sono estinti, ma l’importante è che ci sia”
“Cosa?”
“Il sughero!”

Eric pranza con sua moglie, i due non si conoscono, nonostante siano sposati. Questo scambio di battute, al di là della scientificità asfissiante dello script, ci permette di capire il vero senso dell’ufficio-limousine dove il protagonista passa la maggior parte del tempo: regno dell’ordine blindato e insonorizzato, scortato a vista da un bodyguard che lo affianca a passo d’uomo, luogo squisitamente mentale, concentrato di hi-tech e di design futuribile all’interno del quale ricercare un ordine ed una simmetria impossibili. Del mondo esterno, tutto ciò che interessa o entra fisicamente o è a portata di scroll. Raramente come in Cosmopolis gli spazi scenici derivano direttamente dall’inconscio dei personaggi, la prossemica assume una funzione espressiva analoga e complementare a quella dei dialoghi, costituendo insieme ad essi l’affronto maggiore di Cronenberg al cinema tradizionale. Le parole-chiave, a livello sia scenografico che di script, sono autoreferenzialità, razionalizzazione, controllo, imperturbabilità: come nei dialoghi abbiamo persone che parlano e non comunicano, allo stesso modo gli spazi sono radicalmente divisi, visivamente e acusticamente, compartimenti stagni. Eric è assolutamente indifferente alla comodità del suo abitacolo, e anzi, da un lato non capisce bene che senso abbia muoversi su un bestione così lungo e ingombrante, dall’altra parte lo impaccia in qualsiasi azione che abbia a che fare con il proprio corpo (fare sesso, urinare, farsi ispezionare il retto). Allo stesso modo, non è neanche il tipo di persona che ostenta la sua ricchezza: la limousine, tradizionalmente simbolo di lusso e di potere, viene qui svuotata di tutto il suo significato simbolico tradizionale, per farsi altro. Dopo l’atto vandalico dei manifestanti, Eric non si curerà minimamente di eliminare lo spray e le ammaccature dalla sua carrozzeria: l’immagine di sé all’esterno non ha alcuna importanza, ciò che conta per Eric è avere il controllo sul suo mondo. Eric controlla quello che esperisce, esperisce quello di cui ha bisogno, e ha bisogno di perfezione, di “micronizzazione”. In questa logica, andare dal barbiere acquista molta più importanza del clima barricadiero che si intravede dai finestrini, e agli stimoli del quale il protagonista reagisce in modo totalmente indifferente (non reagendo nemmeno alle forti scosse fisiche che i manifestanti imprimono all’auto).

La distruzione di questa torre di Babele, l’attrazione (o meglio, la mutazione) verso il disordine e la caoticità della realtà si manifestano, infatti, come uscite fisiche da questo castello contemporaneo, senza storia e senza coscienza di sé (“tutto ciò che è attuale è troppo contemporaneo”, dirà Juliette Binoche in una scena). Uscire dalla limousine, per Eric, equivale a perdere il controllo: la conversazione raziocinata (e resa in rigidi campi-controcampi) si sgretola. La moglie, ricca poetessa che non riesce a sostenere l’impazienza e l’autoreferenzialità di Eric; il pasticcere rumeno, simbolo di un’esaltazione del disordine fine a se stessa (l’agguato tra l’altro avviene in una piazza piena di fotografi a cui, ovviamente, Eric non bada); il campo da basket, luogo chiuso alla rete (o libero dalla rete di un mondo in decadenza, a seconda del punto di vista della MdP), rete al quale il protagonista si aggrappa prima di sbarazzarsi del bodyguard. È il punto di svolta, di non ritorno, la guardia dell’ordine diventa superflua, il castello di carte crollerà fatalmente: Eric non si pulisce la faccia (in contrasto con la pulizia impeccabile della sua auto), si taglia i capelli a metà, e abulico e divertito si reca verso il luogo della sua disfatta: la casa di Benno, ex “servo del padrone”, ora disoccupato rancoroso che ha fatto della vendetta nei confronti di Eric la sua unica ragione di vita.

Come l’ufficio mobile di Eric è il regno del controllo, così lo scantinato di Benno è il regno del disordine, del cumulo, della polvere, del tempo. Entrambi i luoghi (scantinato e limousine) sono totalmente autoreferenziali, rifugi non comunicanti l’uno con l’altro: è proprio la non comunicazione (verbale e spaziale) a rappresentare la cifra stilistica e il nucleo drammatico dell’opera. Eric arriva nell’antro di Benno, e si chiude istintivamente in bagno, un bagno scomodo, di fortuna, esattamente come quello della limousine: da ambo le parti c’è un’innaturale chiusura antisociale, a riccio, raccolti in se stessi persino nelle proprie funzioni più elementari. Il bagno, inoltre, serve rimanda ad un altro spazio scenico, se così si può dire: quello rettale. Entrambi i contendenti hanno la prostata asimmetrica, entrambi fanno parte della stessa necessaria imperfezione del mondo, ma reagiscono a questo caos naturale uno ottimizzandolo e razionalizzandolo oltre ogni limite, l’altro adottandolo come forma mentis e rifiutando al contrario ogni tipo di raziocinio. Il contrasto è inevitabile ed esplode nel drammatico finale, che si lega a doppio filo con la contemporaneità: la denuncia anticapitalistica, solo apparentemente lasciata in secondo piano (“tu dovevi salvarmi!”, sarà l’ultima battuta del film), già visivamente si era manifestata in altre sfide visive, come gli agguati già descritti o i lanciatori di topi all’interno della tavola calda.

In questa lotta, che molto cronenberghianamente vede l’uomo contro la sua stessa natura, l’unico rifugio sembra essere la biblioteca, vissuta dalla moglie e evocata da Benno nel finale, luogo dove l’attualità esce dal contemporaneo, dove la percezione di sé e della propria limitatezza (sia nel caso di Eric che di Benno) si fa totale. Il resto è solo un’esibizione di sé senza scopo, in un mondo dove nulla viene nascosto, tutto è palese, ma nessuno lo vede. La distruzione, il disordine, e la morte, sono perfettamente esibiti (si pensi solo alla bara trasparente del cantante morto), le informazioni sono a portata di tutti (basta accendere la tv, come farà Eric su suggerimento del suo consigliere): il limite alla conoscenza non è imposto in maniera coercitiva da un’istituzione politica o economica, ma auto-imposto dall’uomo stesso, protagonista o antagonista che sia. Questa, sembra dirci Cronenberg, è la chiave per interpretare non solo il film, ma anche e soprattutto la Cosmopolis in cui viviamo.

 

 

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