giovedì, Marzo 28, 2024

Diaz: la necessità di non tradire i fatti, l’incontro con Daniele Vicari

Ormai prossimo all’uscita nelle sale italiane (13 aprile), Diaz, l’ultimo lavoro di Daniele Vicari, è stato presentato e raccontato, nel corso della serata di martedì 10 aprile, al pubblico milanese dell’Anteo Spaziocinema dal regista stesso, dalla cosceneggiatrice Laura Paolucci, dal produttore Domenico Procacci e dal cast: Elio Germano, Renato Scarpa, Davide Iacopini, Paolo Calabresi e Alessandro Roja. Di seguito si propongono alcuni tra gli interventi più significativi dell’incontro che ha preceduto la proiezione del film in anteprima.

Introduzione del regista

Vicari: Soltanto in questi ultimi giorni ci stiamo rendendo pienamente conto del significato del nostro film, grazie agli incontri e ai dibattiti a cui stiamo partecipando in giro per l’Italia, in occasione dell’anteprima. Voglio andare controcorrente e sfatare i luoghi comuni sul malfunzionamento della giustizia in Italia, perché nel caso della Diaz e di Bolzaneto si sono svolti dei processi grazie alla caparbietà e all’abilità dei giudici e dei pm. Cosa molto importante per noi, perché gli atti processuali ci hanno permesso di documentare uno dei fatti più brutti e incredibili degli ultimi quarant’anni di storia del nostro paese. Finalmente è stato possibile farlo. Al di là dell’esito dei procedimenti in corso, i documenti processuali ci permettono di avere dei punti fermi, ci danno la forza per dire delle cose con esattezza. Leggendo quei fascicoli insieme a Domenico  [Procacci] e Laura [Paolucci], abbiamo pensato che dovevamo soltanto dare forma e sostanza a ciò emerge dai documenti, senza inventare nulla. Non possiamo e non vogliamo costruire teorie sulle vicende della scuola Diaz e delle torture nel carcere Bolzaneto, ma cercare di non tradire la verità degli eventi. Questo è stato possibile attraverso la scelta di episodi significativi sia per la vicenda in sé, sia per il tipo di racconto che volevamo rappresentare.

[Domanda rivolta agli attori] Vi ricordate cosa stavate facendo durante le giornate del G8?

Elio Germano: Abbiamo aderito al progetto perché in tutti noi c’era già la necessità di vedere da spettatori un film che parlasse, fin da subito, degli eventi di Genova. Questo film è stato vissuto da tutti come uno sforzo gioioso. Molto spesso nel mondo del cinema tutti cercano l’occasione per mettersi in mostra, ma non è certamente il caso del nostro film. Abbiamo sentito tutti immediatamente la necessità di prestare la nostra opera in funzione di qualcosa di molto importante. All’epoca, ho seguito le vicende del G8 tramite Radio GAP e successivamente ho avuto modo di ascoltare le testimonianze dirette di amici che purtroppo sono stati coinvolti nei fatti alla Diaz e a Bolzaneto.

Paolo Calabresi: Nei giorni del G8 ero a Roma, perché era nata mia figlia. Ricordo un’alternanza di emozioni, perché un mio carissimo amico era a Genova ed ha assistito alla morte di Carlo Giuliani. Ricordo la sua voce sconvolta dopo una telefonata. Gli sembrava di essere stato proiettato in un altro mondo. Con questo film, quindi, ho ritrovato anche questo tipo di emozioni. Per me questo film è stato un dono, una gioia per la mia vita professionale. In un progetto del genere non ti passa neanche per la testa di prenderti spazio col tuo personaggio perché c’è la sensazione che si sta veicolando un messaggio molto più importante. Quando il tuo lavoro è così pregno di significato, il mestiere dell’attore assume un senso sociale molto forte.

Davide Iacopini: Io nel 2001 non ero a Genova; ero un giovane di diciassette anni poco interessato alla politica. Pur vivendo vicino a Genova, a Novi Ligure, questa mia assenza nel corso degli anni è diventata una sorta di rimorso: partecipare a questo lavoro mi ha messo un po’ a posto con la coscienza. Si tratta, inoltre, del mio primo film, perciò sono molto orgoglioso di aver esordito con un progetto di così grande impegno sociale.

Renato Scarpa: Quando è arrivata la notizia dei fatti relativi alla Diaz, stavo seguendo alla tv un confronto fra Gianfranco Fini e Fausto Bertinotti. Sono rimasto scioccato da questi eventi cruentissimi. Un anno fa ho incontrato Daniele [Vicari] e abbiamo parlato del film. Ho avuto paura, perché per trattare questioni così complesse, che toccano da vicino la struttura del nostro vivere sociale, è necessario fare un grande film, altrimenti si tradisce il valore dell’argomento. Daniele è riuscito a creare un’opera di grande onestà intellettuale, non schierata ideologicamente. Ringrazio Procacci per il coraggio che ha dimostrato nel produrre un film di così grande impegno civile.

 

Dal punto di vista produttivo, che tipo di difficoltà avete incontrato?

 

Procacci: L’intenzione è sempre stata di creare un film grande, con mezzi idonei per esprimere con forza il caso trattato. Le difficoltà sono state molte. Solitamente molte fonti di finanziamento si trovano nel proprio paese, ma nel mio caso inizialmente non ho trovato nessuno che volesse produrre questo film. Fortunatamente c’è stato l’entusiasmo di due produttori esteri, uno francese e uno rumeno, che hanno coperto una parte del budget. Poi col passare del tempo sono intervenute anche alcune istituzioni italiane con dei finanziamenti, non grandi cifre.

Come credete di diffondere il film, visti gli argomenti scomodi che va a toccare?

 Procacci: Lo scopo che ci siamo posti con questo film era di raggiungere tutte le fasce di pubblico, e non di fare un prodotto per i reduci di Genova che sanno perfettamente come sono andate le cose alla Diaz e a Bolzaneto. Volevamo raggiungere i più giovani, quelli che nel 2001 erano poco più che adolescenti e che dunque non hanno memoria diretta degli eventi di Genova. Ma anche i cittadini che non si sono interessati più di tanto a quelle vicende o non se ne sono fatti un’idea precisa. Purtroppo nessuna emittente televisiva, a pagamento e non, lo ha ancora comprato, ma mi auguro che, nell’arco di qualche mese, la situazione cambi. Così un giorno riusciremo a raggiungere anche quelle fasce di pubblico che un film del genere non lo andrebbe a vedere mai al cinema.

Da dove nasce la scelta di concentrarsi sul caso Diaz, viste le innumerevoli vicende avvenute durante i giorni del G8?

Vicari: E’ molto tempo che mi interesso ai fatti di Genova. Raccontare tutti gli eventi del G8 sarebbe stato impossibile, ci sarebbero volute ore e ore di film. Perciò ho deciso di circoscrivere l’attenzione sul caso Diaz per motivi di tempo e spazio narrativi. In questi giorni sto leggendo alcune notizie di agenzie di stampa dettate da alcuni piccoli sindacati di polizia, nelle quali si afferma che non ho raccontato quanto è successo prima dell’irruzione dei poliziotti nella famosa scuola: mi viene automaticamente da rispondere che avrei potuto cominciare il film parlando di quanto avvenuto nel marzo del 2001 alla caserma Raniero, a Napoli, dentro la quale sono stati seviziati centinaia di cittadini, dopo essere stati sequestrati. Difatti, molti poliziotti protagonisti dei misfatti della caserma Raniero hanno partecipato anche alle torture della Diaz e di Bolzaneto, rimediando così ben due condanne. Anche questo elemento di continuità fra gli uomini presenti in entrambe le vicende conferma la complessità e la vastità di questa storia. Mi sono chiesto spesso perché dovrei raccontare tutto il resto del G8: narrare i disastri dei black bloc e poi i fatti della Diaz avrebbe in qualche modo giustificato e alleviato il tipo di reati compiuto dalla polizia nella scuola e a Bolzaneto? Secondo me, no, perché un comportamento fuori dalle regole, che va contro la Costituzione, rimane illegale e basta e non può essere giustificato da niente. La cosa ancor più grave è che si tratta di azioni condotte da persone in divisa, coloro che dovrebbero garantire sicurezza al cittadino. E’ paradossale che certe cose si verifichino proprio in Italia: siamo il paese di Cesare Beccaria, abbiamo il vanto di appartenere a una fra le prime nazioni che ha prodotto una cultura e una letteratura civile che mette in crisi certe ideologie, certe idee sulla funzionalità della tortura all’interno delle carceri. Eppure, dopo centocinquant’anni, siamo ancora qui a discutere se sia giusto o meno inserire il reato di tortura nel codice penale italiano. Noi tutti, in qualità di cittadini, abbiamo il dovere di farci delle domande davanti a questi problemi.

Hai conosciuto direttamente le persone coinvolte nel caso Diaz?

Vicari: Domenico [Procacci], Laura [Paolucci] ed io abbiamo incontrato moltissime persone. Il primo è stato il giornalista Luca Guadagnucci, poi c’è stata la ragazza tedesca e il ragazzo francese. Quest’ultimo ha affermato delle cose che collimavano totalmente con gli atti processuali. C’è un altro dettaglio significativo affiorato durante le riprese: quando era il momento di girare la scena dell’irruzione alla scuola Diaz, con l’arresto dei civili, ho detto agli attori di mettere le mani dietro la nuca e tutti, sul set, si sono opposti perché ritenevano la cosa poco credibile. Io, in realtà, intendevo rispettare soltanto le cose così come venivano riportate dagli atti processuali. Alla fine abbiamo pensato di inserire direttamente dei materiali di repertorio, che dimostravano effettivamente l’uscita degli arrestati con le mani dietro la nuca.

Perché i personaggi non compaiono con i nomi reali? Perché nel film non viene specificato il ruolo che il ministro dell’Interno ha avuto nei fatti della G8?

 Paolucci: Noi volevamo fare un film destinato a tutti, cercando di essere più onesti possibile, senza orientare ideologicamente lo spettatore.

 Procacci: Fino a poche settimane prima del completamento del film avevamo deciso di mantenere tutti i nomi reali. Poi dalle parti offese nel caso Diaz ci è stata fatta richiesta di non usare i loro nomi. Mi è sembrata una richiesta legittima. A quel punto non ci è sembrato giusto inserire solo una parte dei nomi reali, lasciando tutti gli altri personaggi con nomi inventati. Tutto questo però non ci ha ostacolato nel racconto dei fatti della Diaz  per come sono accaduti. Abbiamo avuto semmai qualche libertà in più: ad esempio, il poliziotto interpretato da Alessandro Roja compie una serie di azioni che, nella realtà, sono state fatte da diversi agenti, non solo da uno. Personalmente credo la politica sia molto responsabile di quello che è successo a Genova nel 2001 e che sia responsabile ogni volta in cui delega le proprie decisioni ad altri ai quali non spettano certe scelte: ai poliziotti è stato chiesto di fare molto di più di quel che spetterebbe a loro. A mio avviso sono dinamiche molto pericolose.

Vicari: Una volta che ci è stato chiesto di togliere i nomi reali di alcune persone coinvolte, ci siamo sentiti più liberi dal punto di vista drammaturgico (e non dei fatti), come ha detto Domenico, sommando le azioni di tre poliziotti in un solo agente, quello interpretato da Roja. Stiamo parlando però di cose veramente marginali all’interno della narrazione del film. Le persone che hanno responsabilità collegate alla vicenda Diaz sono rimaste le stesse. Il personaggio di Alessandro si fa carico di orrende azioni commesse da poliziotti anonimi. Per quanto riguarda i nomi non posso che ribadire quel che ha detto poc’anzi Domenico. Oltretutto, all’estero in pochi conoscono i nomi reali dei coinvolti, perciò conta di più il significato delle azioni che vengono testimoniate nel film.  Per quanto riguarda le responsabilità politiche, nel film io non avrei mai potuto parlare di un presunto ordine che Claudio Scajola, ministro dell’Interno di allora, avrebbe dato alla polizia, perché non c’è nessun documento che lo attesti. Nessuno sa se Scajola abbia realmente dato direttive. E’ soltanto un’illazione, perché è molto difficile che un ministro entri così nel dettaglio di un’operazione del genere. Io, sinceramente, non me la sento di raccontare fatti non documentati. Sono cose che si possono fare in film di carattere allegorico, come possono essere Salò e le 120 giornate di Sodoma [di Pier Paolo Pasolini] o Buongiorno, notte [di Marco Bellocchio]. In quest’ultimo, il regista racconta un fatto realmente accaduto: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, all’interno di una struttura allegorica che gli permette alla fine del film di far vedere Moro che passeggia per le strade di una Roma deserta, mentre nella realtà dovrebbe essere già morto. Diaz invece è un film realistico, la cui cifra stilistica è una mescolanza tra metafora e realtà, dunque non mi sono potuto permettere licenze o invenzioni di questo tipo.

 Non crede ci sia il rischio che, dopo aver visto il film, gli spettatori pensino che tutta la polizia di oggi si comporti come i poliziotti che erano a Genova?

 Procacci: Il film si riferisce ai fatti del 2001, però dei casi recenti come quello di Stefano Cucchi o di Federico Aldrovandi mi fanno pensare che tutt’oggi la polizia abbia la mano pesante. Credo che le cose siano migliorate rispetto ai fatti di Genova, ma rimangono ancora molti problemi da risolvere.

 

 

Diego Baratto
Diego Baratto
Diego Baratto ha studiato filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è laureato con una tesi sulla concezione del divino nella “Trilogia del silenzio di Dio” di Ingmar Bergman. Da sempre interessato agli autori europei e americani, segue inoltre da vario tempo il cinema di Hong Kong e Giappone. Dal 2009 collabora con diverse riviste on-line e cartacee di critica cinematografica. Parallelamente scrive soggetti e sceneggiature.

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