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Hayao Miyazaki e la s-fortuna distributiva

Hayao Miyazaki e la sfortuna distributiva

Non dovrebbe stupire il caso italiano della distribuzione in sala “a posteriori” dell’opera del maestro d’animazione giapponese Hayao Miyazaki. Pur attivo dalla fine degli anni Settanta, Miyazaki ha conosciuto i favori di critica e pubblico internazionali – ovvero, fuori dai confini orientali – solo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila, grazie a due lungometraggi, La principessa Mononoke e La città incantata. Quest’ultimo, in particolare, forte dell’Orso d’oro a Berlino nel 2002, e dell’Oscar nel 2003, ha ricevuto la dovuta considerazione da parte delle diverse distribuzioni. Il film, infatti, uscì anche nelle sale italiane, curato dalla Buena Vista, marchio legato al colosso Disney, da sempre reticente ad una distribuzione “filologica”  – ovvero priva di tagli e adattamenti per il pubblico infantile –  delle opere marchiate Ghibli sul territorio occidentale: la stessa casa che si occupò, tre anni prima, di distribuire, in maniera alquanto discutibile, La principessa Mononoke. Successivamente, come scrive Alessandro Bencivenni nella monografia dedicata a Hayao Miyazaki edita da Le Mani, “la situazione è migliorata quando alla Buena Vista sono subentrate Mikado prima e poi Lucky Red, che ha designato lo scrupoloso Gualtiero Cannarsi a curatore delle edizioni italiane dello Studio Ghibli”. Infatti, dal 2005, la Lucky Red ha curato le ultime opere del maestro giapponese, ovvero Il castello errante di Howl e Ponyo sulla scogliera, nonché gli altri lavori realizzati dallo Studio Ghibli, quali I racconti di Terramare e Arrietty. Parallelamente, è avvenuta una piacevole riscoperta “in sala” dei classici dello Studio Ghibli, inaugurata nel 2009 con Il mio vicino Totoro. Si sono, infatti, susseguiti Pom Poko, Porco rosso, I sospiri del mio cuore, usciti tutti nelle sale nel 2011, Laputa – Il castello nel cielo, nel 2012 e, per ultimo, Kiki – Consegne a domicilio previsto in sala per il prossimo 18 aprile 2013 sempre a cura di Lucky Red.

Una situazione che è, dunque, migliorata nel tempo, e che ha gettato una luce sulla totale trascuratezza e disistima, anche qualitativa, di cui, fino a pochi anni, fa ha sofferto il cinema d’animazione giapponese nel contesto distributivo del nostro paese. Censure, doppiaggi approssimativi e semplicistici sono solo alcune delle conseguenze che hanno motivato lo stesso Miyazaki a impedirne, a volte, la distribuzione. Ad influire, di certo, ha contribuito un clima culturale poco aggiornato sulle reali situazioni cinematografiche orientali, spesso viste con sufficienza, alla stregua di quelle serie televisive – anch’esse notevolmente “stravolte” da parte dei distributori italiani – che si affacciarono in Italia, sul piccolo schermo, negli anni Settanta.

Ma per quale motivo, l’anime giapponese fu, per così tanto tempo, sottostimato? Il cinema d’animazione – degradato con il semplicistico appellativo di “cartone animato” – ha sempre sofferto, nell’occhio dello spettatore, di un complesso di inferiorità. Nel caso specifico dell’anime giapponese, poi, si è aggiunto un divario culturale abbastanza notevole, ben evidenziato proprio nelle produzioni di Hayao Miyazaki. Il cinema del “dio dell’anime” – sempre per riprendere la terminologia di Bencivenni – rifiuta infatti alcuni capisaldi “morali” della tipica animazione occidentale, rappresentata in primis dall’universo disneyano. Il rifiuto alla distinzione manichea tra bene e male – elemento fondante del modello Disney – è spesso assente nei film del regista giapponese, in cui mancano dei veri e propri antagonisti, e, se ci sono, difficilmente subiranno quelle punizioni che, da Biancaneve e i sette nani in poi, abbiamo imparato a conoscere. Una scelta, questa, che non è affatto scontata, e che mina da subito le basi di una normale lettura del film d’animazione. In aggiunta, in risposta ai nuovi canoni “umoristici” delle produzioni occidentali più recenti, tra cui la Pixar – casa, comunque, molto legata allo Studio Ghibli -, i film di Miyazaki si configurano attraverso una ritrovata classicità, che poco ha da spartire con quell’ammiccamento metalinguistico nei confronti del proprio pubblico (da questa parte si parla anche di Gadgettizzazione di Totoro) , che caratterizza i nuovi film d’animazione occidentale. Il cinema di Miyazaki cerca, piuttosto, una ritrovata innocenza, un dovere sentito per il messaggio educativo – dai connotati fortemente pacifisti e ambientalisti – accompagnato da un grande senso del racconto e della narrazione.

Ecco dunque delinearsi alcuni aspetti che pongono subito una certa differenza – e anche una diffidenza –che non può non aver influito e intimorito le distribuzioni internazionali, impreparate a queste forme di linguaggio, spiazzanti nella loro apparente semplicità ed immediatezza. Si spera, quindi, che l’ottimo lavoro compiuto da Gualtiero Cannarsi e dalla Lucky Red siano d’esempio per riscoprire un panorama cinematografico sottostimato, ormai, da tanto, troppo tempo.

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