mercoledì, Dicembre 4, 2024

La passeggera di Andrzej Munk (Pasazerka – Polonia, 1963): recensione

Pasazerka, note sul capolavoro incompiuto di Andrzej Munk

Andrzej Munk morì in un incidente stradale il 20 settembre del 1961,aveva 39 anni  e stava lavorando, con la collaborazione di Witold Leisiewicz, alla realizzazione di questo film. Protagonista con Wajda di quella “nouvelle vague” polacca che nel secondo dopoguerra allineò il suo paese alle grandi svolte del cinema europeo, Munk aveva esordito nel 1956 con Un uomo sui binari (Czlowiek na torze) premiato al festival di Karlory Vary, ma la sventura di una brevissima carriera gli impedì di veder compiuto Pasazerka che, molto probabilmente, sarebbe stato il suo capolavoro, tanta è la forza che emana dal materiale girato (le scene del ricordo di Liza, ex sorvegliante ad Auschwitz) e dalle foto di scena usate da Leisiewicz nell’opera di costruzione successiva del film, durata due anni e realizzata con grande rispetto dell’allievo per il Maestro, di cui salvaguardò stile, sguardo e prospettiva etica.

Il progetto era già stato formulato, le foto di scena esistevano e la storia, tratta dal romanzo omonimo di Zofia Posmysz-Piasecka, nasceva ambientata nel presente, su una nave in rotta da Amburgo verso un porto canadese nei primi anni ’60. Liza (Alexandra Slaska), allora sorvegliante ad Auschwitz e ora in viaggio col marito (Jan  Kreczmar), vede sulla passerella una donna che le sembra Marta (Anna Ciepielewska), un’ebrea polacca scelta come aiutante per il suo lavoro al campo, quando era vigile custode dei grandi magazzini stracolmi di beni usurpati ai prigionieri e ora proprietà del Reich. Forte in lei la convinzione di collaborare al bene della Patria (“io dovevo avere cura che tale proprietà non si deteriorasse né venisse dispersa, c’era la guerra e ognuno di noi si sentiva un soldato”), Liza è il prodotto perfetto dello sradicamento delle coscienze operato dalla propaganda nazista, sembra addirittura vantarsi del suo essere capace di trattamento umano delle prigioniere, con ciò dando per giusto e scontato che quel pezzo di umanità chiuso nei lager dovesse a ragione trovarsi lì.

La sua voce fuori campo che racconta al marito quel passato mai rivelato è la voce di chi, dal presente immemore, giudica il passato autoassolvendosi, e gli orrori che Munk riprende a tratti sono lasciati volutamente sullo sfondo, privi di compiacimento descrittivo e ritorno emotivo, devono esprimere l’assoluta irrappresentabilità di un universo concentrazionario che fa dire a Liza, in apertura di racconto: “ad alcuni il potere aveva dato alla testa”, commento fugace di scene di massacro tra fetide pozzanghere. Liza ha scelto Marta come aiutante per un’attrazione istintiva verso quel viso “fragile, ingenuo e femminile”, ritratto da Munk nella passerella di visi femminili imploranti, in attesa, rassegnati, che guardano muti la donna in divisa, fuori campo, intenta alla scelta mentre, ritmato, il rumore degli stivali risuona sul selciato.

Solo il viso di Marta è chiuso, severo, non guarda. Con lei Liza non riuscirà mai a stabilire un contatto, nonostante i suoi sforzi per aiutarla, salvandole la vita in più occasioni e permettendole di incontrare Tadeusz, il suo uomo, internato come lei. Questo è il senso della prima confessione, quella di Liza al marito, figura marginale relegata alla fissità delle foto, solo utile presenza, nell’economia del film, per portare in superficie le contraddizioni di Liza. C’è infatti un giudice ben più esigente, ed è la coscienza a cui la donna deve rispondere, al di là delle giustificazioni più o meno pretestuose, perchè di quel passato che sembrava rimosso è rimasto insepolto il silenzio di Marta, lo sguardo di chi non si piega, quell’oscuro, irrisolto rapporto carnefice/vittima che in quei giorni le coinvolse in una ossessiva ambiguità di ruoli e che oggi torna come smarrimento, angoscia, desiderio di chiudere gli occhi e non ricordare.

Liza è costretta ad uno scavo interiore in cui sembra trovare verità che il tempo non è riuscito a coprire e che può confessare solo a sé stessa, Sì, anche lei è stata crudele, di una crudeltà diversa dagli aguzzini del campo, nata da un’assurda rivalità con una donna che si vuol domare ma non si riesce, dal gioco perverso dell’aguzzino con la sua vittima, a sua volta prevaricante sulla sua padrona perché donna felice, pur essendo internata, ha un uomo che l’ama, che ruba per il suo compleanno rose dalla serra del campo, ha tutto quello che Liza non ha mai avuto, pur essendo dalla parte dei vincitori. Nel ricordo la realtà del lager si astrae, lo scontro diventa individuale e rimanda ad una conflittualità che non affonda radici nella storia, Liza cerca, in definitiva, “una difesa e una fuga verso una dimensione umana, verso una crudeltà e un male che ancora possano dirsi umani”.

Una crudeltà “che possa dirsi umana” diventa addirittura consolatoria perché si può rimuovere, espiare, forse conviverci, là dove non esistono parole per parlare di un’altra crudeltà, né rimozioni possibili. La misura di Munk nelle riprese in movimento del lager è raggelata, sobria e distante anche quando filma file di bambini guidate da bianche infermiere nel tunnel diretto alle camere a gas, mentre un diligente  sonderkommando rovescia barattoli di acido cianidrico in sali crepitanti nei camini sul tetto. All’evidenza tragica bastano il bianco e nero sporco della fotografia, i rumori secchi, dentro e fuori scena, la geometrica compostezza di inquadrature che parlano di ordine, efficienza, puntualità operativa, come quella del solerte custode che, passando col bastone, rigetta dentro il carro un braccio penzolante all’esterno.

L’inserimento del repertorio fotografico di immagini fisse in cui si svolge il presente della storia ha un ruolo di raccordo con i filmati di Munk che, più che colmare le lacune di un film incompiuto, gli conferiscono una circolarità perfetta, con singolari effetti di straniamento sullo spettatore, lo stesso prodotto dal racconto mitico quando vi si voglia cercare una logica umana. L’immobilità fotografica del presente e la mobilità delle immagini del passato, nel ribaltamento logico determinato dalla particolare, sfortunata storia di questo film, diventano portatrici di senso, il passato storico viene sublimato in racconto mitico di cui assume tutta la dinamica evidenza immaginifica, la stessa che un tempo il teatro portò sulla scena dove ristagnava il presente immobile. La dimensione mitica e atemporale rende paradigma astratto ciò che è inesprimibile, la Storia viene così guardata, l’orrore non fa chiudere gli occhi, ma lo smarrimento che produce catarsi può anche tradursi solo in miraggio, sembra dire Munk, il percorso di autocoscienza di Lisa non ha prodotto in lei consapevolezza capace di andare oltre il momentaneo turbamento, e la nave, isola nel tempo e nello spazio, continua indifferente il suo viaggio. La passeggera è scesa, forse non era Marta, forse le somigliava soltanto, forse quel passato si può dimenticare o continuare a pensarlo con le stesse buone ragioni.

“Questa storia iniziata su una nave che è un’isola nel tempo è facile da concludere. L’incontro con il passato non è durato a lungo, forse Marta è morta da tempo e questa è solo una passeggera che le somiglia e ora scende a terra. La nave prosegue il viaggio, probabilmente le due donne non s’incontreranno più.”

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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