Home alcinema Il castello nel cielo di Miyazaki Hayao (Giappone, 1986)

Il castello nel cielo di Miyazaki Hayao (Giappone, 1986)

l castello nel cielo è nelle sale italiane dallo scorso 25 aprile grazie a Lucky Red dopo un prima uscita home video nel 2004 per merito di Buena Vista; punto d’approdo di una fase i cui vertici sono la serie tv Conan, il ragazzo del futuro (1979) e il lungometraggio Nausicaä della Valle del vento (1984).

Prigioniera nell’astronave del torbido colonnello Muska, la giovane Sheeta, durante un attacco notturno degli aviopirati, precipita nel vuoto. Verrà salvata dalla pietra che le pende al collo che ha il potere di tenere la ragazza sospesa nell’aria. A terra c’è il giovane e caparbio minatore Pazu, pronto ad accoglierla e a difenderla. D’ora in poi, per i due non ci sarà più un solo attimo di tregua: saranno inseguiti dagli aviopirati e dall’esercito di Muska, il quale, come Sheeta, nasconde molti misteri legati a Laputa: una mitica città levitante.

Ciclicamente nell’opera di Miyazaki si ritrovano film in cui l’autore ha messo in campo tutte le proprie migliori risorse artistiche, nel tentativo di cristallizzare la sintesi definitiva della propria poetica. Pellicole spartiacque per periodi artistici diversi, che sanciscono le conquiste estetiche e tematiche raggiunte sino a quel momento e aprono la strada a nuovi sviluppi. Il castello nel cielo, distribuito dal 25 aprile nelle sale italiane grazie a Lucky Red dopo un prima uscita home video nel 2004 per merito di Buena Vista, è sicuramente fra queste: punto d’approdo di una fase i cui vertici sono la serie tv Conan, il ragazzo del futuro (1979) e il lungometraggio Nausicaä della Valle del vento (1984). Vi si rinvengono i noti temi del genio dell’animazione: la passione-ossessione per il volo in tutte le sue declinazioni (dalla sospensione magica al portento meccanico dei velivoli); l’aspra critica al culto del potere tecnologico che disumanizza il mondo e l’uomo; l’inconfessato desiderio di un ritorno a una società più “arcaica” e in armonia con la natura; il lavoro come emancipazione e presa di coscienza di sé.

La swiftiana isola fluttuante di Laputa è tutt’altro che una terra promessa: è piuttosto il luogo dove deflagra l’inconciliabile conflitto tra natura e tecnica. Nella sua parte più interna, un giardino incontaminato al cui centro è posto un titanico albero di canfora (simbolica corrispondenza tra corpo dell’uomo e corpo della natura); nella sua parte esterna una concrezione metallica, corazzata e artificiale, che cela armi micidiali. Al di là delle evidenti riprese dei cosmi narrativi di Robert Louis Stevenson e Jules Verne, in Laputa Miyazaki fa convergere due diverse versioni del mito dell’isola perduta di Atlantide: quella illustrata nel Timeo da Platone e ancor più esplicitamente quella idealizzata da Sir Francis Bacon nel testo incompiuto La Nuova Atlantide. Diversamente dalle fiduciose prospettive del filosofo induttivista inglese, che vedeva nei prodigi della tecnica la via ideale per la libertà, il progresso e il bene supremo per l’umanità, Miyazaki pone un forte accento sui pericoli dell’incontrollabilità del potere scientifico, l’illusione di onnipotenza che questo può scatenare nell’uomo («Quella pietra racchiude un forte potere (…) Ma le pietre che racchiudono il potere possono portare la felicità, così come attrarre la disgrazia. Inoltre quella pietra è stata creata dalle mani dell’essere umano. Questo me ne fa dubitare» osserva Nonno Pomme che vive nelle miniere da saggio eremita). Più che assimilabile a un nuovo racconto utopico, il discorso di Miyazaki sembra antiutopistico: «Non possiamo vivere disgiunti dalla Madre Terra», ricorda Sheeta, con parole di alto contenuto allegorico, nel momento in cui è costretta ad usare l’incantesimo di distruzione su Laputa, per evitare che l’immane arsenale bellico della città finisca nella mani del malvagio Muska, ormai schiavo del suo sogno megalomane di dominio terrestre.

Che cosa rimarrà di Laputa, alla fine? Un Eden dall’ecosistema imperturbabile, spinto sempre più in alto da una forza ascensionale che lo sottrae all’azione coercitiva dell’uomo. Ma c’è un altro livello di lettura, più immediato, di questa aspirazione alla città aerea poi trasformata in volontà di ritorno alla terra: come è noto, le storie di Miyazaki sono sempre dei “romanzi di formazione” dove, al contrario di molti altri anime di successo, c’è un momento per sognare, abbandonandosi al principio di piacere, e una fase seguente in cui l’eroe o l’eroina tagliano il traguardo del principio di realtà, raggiungendo dunque una maggiore consapevolezza e maturità. La meticolosa ricerca del dettaglio nelle ambientazioni (ispirate ai paesaggi del Galles che Miyazaki visitò appositamente per il film nel 1984), lo straordinario design zoomorfo dei velivoli, la indiavolata spettacolarità delle scene d’azione (le spericolate battaglie aeree, l’inferno scatenato dal robot laputiano) garantiscono un impatto visivo travolgente, ridestando il sense of wonder nella sua essenza più genuina, anche se si avverte un lieve raffreddamento del caldo afflato emotivo che pervade molte altre opere del maestro. Rimane, ad ogni modo, incontestabilmente una pietra miliare della filmografia di Miyazaki,  modello di riferimento per molti altri anime (prima fra tutti la celeberrima serie tv Nadia – il mistero della pietra azzurra (1990) di Hieaki Evangelion Anno) e prova tangibile della sterminata varietà di dimensioni metaforiche e di racconto visitate dall’autore nel corso di una carriera piena di capolavori come poche altre.

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Diego Baratto ha studiato filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è laureato con una tesi sulla concezione del divino nella “Trilogia del silenzio di Dio” di Ingmar Bergman. Da sempre interessato agli autori europei e americani, segue inoltre da vario tempo il cinema di Hong Kong e Giappone. Dal 2009 collabora con diverse riviste on-line e cartacee di critica cinematografica. Parallelamente scrive soggetti e sceneggiature.
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