giovedì, Aprile 25, 2024

Il primo uomo di Gianni Amelio (Italia-Francia, 2012)

[Leggi l’articolo di Caterina Liverani sull’incontro della stampa con Gianni Amelio. n.d.r.]
1958. Ormai conquistata grande fama, lo scrittore Jean Cormery si reca in Algeria, la terra natia che lo ha visto crescere. E’ lì che abita ancora la madre. E’ lì la fonte del richiamo della coscienza di Jean, che lo porta a fare i conti con le ferite ancora aperte di una nazione che non riesce a pacificare le sue due anime: quella francese e quella araba. E’ lì che riaffioreranno, in tutto il loro vivido fulgore, i ricordi delle tappe della sua infanzia e delle persone che le hanno scandite. E’ lì che ancora aleggia lo spettro di un padre, caduto durante la seconda guerra mondiale, che non ha mai conosciuto e che aveva scelto come patria l’Algeria. Sarà un viaggio nel passato, parallelo ai mutamenti sempre meno addomesticabili del presente.

Il primo uomo è il risultato cinematografico dell’incontro di due autobiografie: quella di Gianni Amelio e quella del grande scrittore esistenzialista Albert Camus, la cui vita traspare dalle pagine del romanzo omonimo e incompiuto, ritrovato fra i rottami dell’auto in cui l’autore francese perse la vita. Dopo aver analizzato in modo spietatamente lucido la condizione di smarrimento esistenziale e di solitudine interiore dell’uomo e i modi con cui riscattarsi da essa (basti pensare a Lo straniero e La peste), con questo romanzo Camus entrò nel vivo della propria vicenda privata, segnando un netto distacco dalla poetica dell’assurdo e della rivolta che aveva contraddistinto la sua precedente produzione narrativa e saggistica. In questa storia di lotta per diventare uomini senza la guida paterna, che intreccia i sentimenti più profondi verso la terra d’origine alla riflessione politica sui destini del proprio popolo, Amelio ha ritrovato vari contatti autobiografici: l’infanzia segnata dall’assenza del padre (tema costante nel cinema dell’autore) e trascorsa con la madre e la nonna; il clima del secondo dopoguerra e i conflitti ancora aperti; un mondo da ricostruire.

Con questo film, Amelio riesce a compiere un miracolo: crea un solido rapporto di interscambio fra micro e macro, fra esperienza privata e impegno politico, esaminando quell’impasto di sentimenti, convinzioni, comportamenti e contingenze che, nel corso di un’esistenza, vanno a costruire una determinata posizione ideologica individuale. “La verità si trova solo nei romanzi, non nei libri di storia o politica”, dice il vecchio professore Bernard a Jean, perché la consapevolezza politica si acquisisce  sul campo, in prima persona, vivendo i fenomeni sociali da dentro, come se fossero un prolungamento della sfera personale; non si concepisce a freddo fra gli scaffali delle biblioteche, magari con teorie tanto astratte che della realtà non dicono nulla.

E, infatti, le rievocazioni della memoria di Jean non sono tuffi nostalgici in un tempo perduto, ma strumenti per capire le proprie radici: per sapere dove si va bisogna aver ben chiaro da dove si proviene. Il padre del protagonista, che Amelio deciderà di  palesare nel finale (contrariamente al libro, dove compare nella scena del parto del primo capitolo), è il fantasma che richiama Jean a fare i conti con il proprio Io e con la propria terra d’origine, affinché si renda conto che non è un francese d’Algeria ma un algerino e basta. Un messaggio condensato anche nella risposta che Catherine, la madre di Jean, rivolge al figlio quando questi le chiede perché non voglia tornare in Francia con lui: “E’ bella, la Francia…ma non ci sono gli arabi.”

Con Il primo uomo Amelio raggiunge uno dei vertici estetici della sua carriera, attraverso un continuo dischiudersi delle immagini che suggerisce la ricerca di un’apertura del protagonista verso tutto ciò che lo circonda, in un atteggiamento di totale e assorta ricettività. Immagini, le cui pulsazioni sono potenziate dalla musica arabeggiante di Franco Piersanti, che riescono a scolpire l’irripetibilità del momento, dell’istante; basti pensare alla sequenza, in sé semplicissima ma di intensa emozione estetica, in cui Jean e gli altri bambini liberano i cani e lui, beccato, è costretto a pagare per tutti. Una purezza formale che è propria dei maestri, così com’è sempre magistrale il modo ameliano di raccontare il mondo infantile, degno di essere accostato agli straordinari ritratti di bambini di Rossellini e di De Sica.

Diego Baratto
Diego Baratto
Diego Baratto ha studiato filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è laureato con una tesi sulla concezione del divino nella “Trilogia del silenzio di Dio” di Ingmar Bergman. Da sempre interessato agli autori europei e americani, segue inoltre da vario tempo il cinema di Hong Kong e Giappone. Dal 2009 collabora con diverse riviste on-line e cartacee di critica cinematografica. Parallelamente scrive soggetti e sceneggiature.

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