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Just like a woman di Rachid Bouchareb

Chicago. Mona è un’immigrata nordafricana, lavora nel negozio di alimentari del marito ed è detestata dalla suocera perché non riesce a dargli un figlio. Marylin è bionda, ogni tanto fa la spesa nel negozio di Mona, ha un marito disoccupato e fa un corso di danza del ventre. Quando, nell’arco di un paio d’ore, perde il lavoro e scopre che il marito la tradisce, Marylin decide di partire per Santa Fè per partecipare all’audizione di una compagnia di danza. Anche Mona è in fuga: ha combinato un guaio a casa e non sa dove andare. Incontratesi per caso in un’area di sosta, le due donne decidono di proseguire insieme. Nel frattempo una coppia di poliziotti si mette sulle loro tracce. Nel 2010, Rachid Bouchareb fece scalpore al Festival di Cannes con Uomini senza legge, prosecuzione ideale del precedente Days of Glory, storia di tre fratelli algerini immigrati nella Francia postbellica (dal 1945 al 1962). La lotta per la libertà, il sangue e la ricerca dell’affermazione personale in un film scabro e maschile. Anche Just Like a Woman, primo passo di un futura trilogia, è una storia di immigrazione e di ribellione, ma la prospettiva è ormai completamente mutata. I ruvidi fratelli Saïd, Messaoud ed Abdelkader lasciano il posto a una coppia di donne fragili e spaventate, costantemente esposte agli attacchi di un mondo insidioso. Nelle prime inquadrature Mona, distesa nella penombra di uno stanzino, ascolta assorta le ricette di una fattucchiera. La suocera superstiziosa cerca un rimedio alla sua presunta infertilità. Scelta per dare una discendenza al figlio, Mona, sposa incontrata il giorno delle nozze, sembra non servire ad altro. La condizione di Marylin è in apparenza diversa: indipendente, lavora fuori casa, si concede perfino un corso di ballo. In realtà, prigioniera di un marito frustrato e di una condizione familiare opprimente, la donna dovrà cercare altrove. La tesi di Bouchareb è presto chiara: la società contemporanea non è aliena da maschilismo, razzismo e sospetto, fantasmi incarnati dagli squallidi individui che le due donne incroceranno lungo la rotta da Chicago al New Mexico. La danza del ventre, il ballo della tradizione araba, come paradossale e ambigua forma di emancipazione, trionfo di una femminilità che finisce però per attrarre gli sguardi morbosi e la pioggia di verdoni di una successione di maschi rozzi e rubicondi. Il corpo, umiliato e piegato (quello di Sienna Miller, picchiata selvaggiamente da una famigliola americana in gita; quello di Golshifteh Farahani, che vale nella misura in cui è in grado di generare nuova vita) come unica dote, fortuna e condanna. La paura del diverso in un paese che ha seppellito nelle riserve i propri unici abitatori autoctoni; la piccolezza dei sentimenti umani negli scenari aperti di un’America enorme e rossastra, strana e straniante. Mona, che non aveva mai lasciato il suo quartiere di Chicago (“Dove la porto?”, le chiede il tassista, provocando il panico), scopre il mondo e Bouchareb cerca di mostrarcelo attraverso i suoi occhi, timorosi e affascinati. Dopo il preambolo iniziale (le esistenze separate e infelici delle due donne), Just Like a Woman tenta di incardinarsi sui solidi binari del road movie esistenziale, con le protagoniste che inevitabilmente fanno pensare a novelle Thelma & Louise. Tolta l’indiscutibile alchimia fra Marylin e Mona, il film procede però a rilento, ritornando pedissequamente sulla riproposizione della tesi, a scapito dell’organicità dell’intreccio, che si sfilaccia nel moltiplicarsi di episodi che ribadiscono, ma non approfondiscono, i temi gettati sul piatto fin dal principio. Perfino superflua la presenza di un’altra coppia, quella dei due poliziotti che intuiscono un collegamento fra i due casi di sparizione. La sceneggiatura accenna una pista (Mona braccata dalla polizia), senza mai perseguirla con convinzione e preferendo piuttosto concentrarsi – anche qui lasciando che le necessità ideologiche prevalgano sulla coerenza globale – sulle loro faccende personali (musulmana lei, cristiano lui, diffidenza della famiglia). Alla fine, in un mondo ostile e pericoloso, solo i sentimenti personali (l’amore fra i poliziotti, l’amicizia fra le donne) consentono una tregua e lo spazio per una lievità d’animo che non conosce distinzione di credo e di colore.

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