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La Polvere del Tempo di Theo Angelopoulos (Grecia, Italia, Germania, 2008)

Quando ho iniziato a fare il regista, il cinema rappresentava la rivoluzione, era in grado di cambiare la società. Per questo preferisco la provocazione, preferisco un cinema fuori dagli schemi, rispetto al cinema moderno, convenzionale e consolatorio. Io mi sono sempre posto di fronte allo spettatore con onestà, perché lo vedo come me stesso”. T. Angelopoulos.

Secondo capitolo della trilogia sul Novecento, La Polvere del Tempo arriva in Italia con tre anni di ritardo, e ci arriva in modo distratto, per poco tempo e in poche sale. Angelopoulos, da molti malignamente additato come apoteosi del “cinema lento”, è difficilmente vendibile, anche con un cast stellare come quello presente in questo film (Michel Piccoli, Willem Dafoe, Bruno Ganz). D’altro canto, l’autore sembra essere il primo artefice del suo insuccesso, nel suo ostinato rifugiarsi in uno stile fatto di piani sequenza e simbolismi, lunghe frasi poetiche che veicolano e costituiscono contemporaneamente il vero oggetto del film. Un racconto ellittico, lucido e brechtianamente analitico, distanziante e autoriflessivo. Un tempo narrazione realmente rivoluzionaria (“Il volo”, “L’eternità e un giorno”), il tocco del regista greco si è trasformato in mestiere, in gabbia, come spesso accade per i grandi cineasti del passato. Un po’ per volontà, un po’ per incapacità di andare al di là della propria forma mentis, Angelopoulos ci regala un ennesimo film autoreferenziale, confuso, tutto-regia, che usa mostri attoriali come se fossero marionette e per parlare della speculazione bancaria della grecia contemporanea (parole dell’autore) si avventura in una complessa narrazione multi-spaziale (Berlino, Siberia, Roma, Grecia) e multi-temporale, raccontando la storia di un regista greco che torna a cinecittà per completare un film sui suoi genitori da lui iniziato molti anni prima, occasione per intrecciare i ricordi del protagonista con la finzione del suo cinema, il tutto interpolato da sequenze relative alla Storia del secolo breve che procedono dalla morte di Stalin sino al Watergate, dalla guerra nel Vietnam alla caduta del muro di Berlino; eventi che si intersecano con i problemi sentimentali del regista (l’ex-moglie, la figlia depressa). Il tutto mescolando le categorie ideologico-politiche brechtiane alla tragedia greca, continui rimandi al cinema del passato, una riflessione sulla caduta delle ideologie vecchia già nell’89 e un umanesimo spesso tagliato grosso, come nella scena finale (complice forse Tonino Guerra?). Rimangono alcune scene in cui il gioco della metafora – vero punto di forza di tutto il cinema di Angelopoulos – riesce, basta pensare alla sequenza dello scanner, geniale simbolo sulla smania di controllo che annulla la dimensione privata e umilia l’essere umano; lo stesso regista se ne rende conto, e indugia sull’incantesimo artistico da lui creato con assoluta noncuranza rispetto ai ritmi narrativi della cinematografia tradizionale. Lo ha sempre fatto, e sempre lo farà, piaccia o meno.

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Raffaele Pavoni (Piombino - LI, 15/04/1987) si è laureato in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo nel 2008, e ha ottenuto il diploma CESCOT di Tecnico Qualificato Documentarista nel 2009. Ha all'attivo documentari, cortometraggi, clip promozionali, collaborazioni con emittenti televisive e studi fotografici, partecipazioni a festival. Ha collaborato e collabora per varie testate web. Vive e lavora a Firenze.
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