giovedì, Marzo 28, 2024

Lo Sguardo di Michelangelo Antonioni e le arti, fino al 9 Giugno a Ferrara

antonioni_arti_ferrara (copy)Non ho nulla da dire, ma forse ho qualcosa da mostrare.

Michelangelo Antonioni

Curata da Dominique Païni, già direttore della Cinémathèque Française, con la consulenza di Carlo di Carlo, la mostra di Palazzo dei Diamanti a Ferrara è organizzata nel centenario della nascita del regista dalla Fondazione Ferrara Arte e dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara-Museo Michelangelo Antonioni, in collaborazione con la Fondazione Cineteca di Bologna.

Sono in mostra oltre 47.000 pezzi donati da Antonioni al Comune fra film, libri, dischi, foto, sceneggiature, manoscritti e dattiloscritti, rassegna stampa,oggetti personali, documenti rari, quadri del regista e lettere dei maggiori artisti e intellettuali dell’epoca fra cui Barthes, Fellini, Tarkovsky, Morandi, Moravia, Sciascia, Calvio, Flaiano, insieme ad opere  dei maestri del Novecento che lo hanno ispirato, da Pollock a Rothko, da De Chirico a Morandi, da Schifano a Vedova, De Pisis, Somaini, Sironi, Burri, Balla.
L’intera serie de Le montagne incantate, opera del regista in blow up, acquerello, pennarello, tecnica mista, tempera, occupa la settima sezione della mostra e parte di altre.
Spezzoni dai suoi film  sono proiettati su quindici schermi dislocati nelle sale, insieme al video con i provini di Monica Vitti per Deserto rosso e un Omaggio a Lucia Bosè di Alain Fleischer, video –installazione realizzata a partire dalle fotografie dell’attrice conservate nel fondo del Museo Michelangelo Antonioni.
Dominique Païni ha spiegato in conferenza stampa la scelta e la disposizione delle opere: “Abbiamo cercato di accentuare i contrasti tra le varie sale. Se la prima sala è dedicata alle origini di Antonioni a Ferrara, la seconda parla degli anni ‘70, del deserto, e quindi c’è un salto trentennale. Alle origini si tornerà poi successivamente. Tentiamo di raccontare una storia.”
La storia che la mostra racconta è quella di un uomo che ha costruito mondi con lo sguardo del cinema, una lunga avventura di straordinari lampi creativi senza soluzione di continuità. Occasione unica di viaggio attraverso le declinazioni espressive della sua visione, l’eccezionale ricchezza dei materiali esposti comunica al visitatore quello “sguardo vorace” che ha segnato il cammino artistico di Antonioni, ricostruendo l’intera traiettoria di una vita passata a dare sostanza ad un ganglio vitale del pensiero cinematografico. Perché il cinema di Antonioni è manifesto dell’arte cinematografica.
Autore difficile, come osserva Aldo Tassone nel noto Castoro dedicato al regista, e soprattutto non circoscrivibile all’interno di “punti fissi e definizioni sicure”, stretto fra “sintomatici ritardi” nel riconoscimento della sua novità e “consacrazioni tardive che avevano l’aria di risarcire una colpa più che di riesaminare i film o verificare gli errori”.
Oggi Antonioni trova nella mostra di Palazzo dei Diamanti, arricchita da tante iniziative collaterali partite già nei mesi scorsi a Ferrara, lo spazio ideale per una conoscenza globale dell’uomo e dell’artista, dei suoi percorsi esistenziali, dell’humus di formazione e dei punti di riferimento.
E lo trova nella sua città, retroterra importante di una giovinezza borghese vissuta fuori dal cinema, ma che al cinema preparava l’approdo sicuro degli anni maturi: “Ho lasciato Ferrara tanti anni fa con un bagaglio di affetti e di immagini che ho sempre portato con me ovunque sono andato”.
Non è un caso che alla prima parte della mostra, dedicata alle origini, segua il salto cronologico che porta agli anni settanta, quasi a circoscrivere l’epoca dei suoi capolavori in un cerchio che ha in quegli anni, da Cronaca di un amore a Professione reporter, il centro di irradiazione delle incessanti modulazioni che continueranno a nutrirlo fino alla fine.
Cellule tematiche addensate in figurazioni che mettono in crisi la percezione ordinaria dello spazio, incrinando le nostre inconfutabili certezze, sostanziano già i corti in bianco e nero dei primi anni (Gente del Po 1947, N.U. (Nettezza Urbana)1948, L’amorosa menzogna 1949, Sette canne, un vestito 1949, Superstizione 1949, La villa dei mostri 1950, La funivia del Faloria 1950).
Brevi racconti ellittici e insieme documenti visivi, testimonianza a volte dura, sofferta, altre ironica, sorridente, di realtà traslata in immagine, trasmettono al pensiero ritmo e umore con progressioni, sospensioni, accelerazioni e apnee che ne segnano la gradazione e il tempo.
In anni di neorealismo imperante, i corti di Antonioni  ricordano piuttosto lo sguardo di Joris Ivens, un occhio che inventava la  realtà attraverso l’obiettivo, l’artificio che lo spettatore percepiva come vero e accettava, pur sapendo.
Abdicando in forme sempre più nette alle ragioni linguisticamente comunicative in senso puro per rifarsi a principi extra-linguistici, il cinema di Antonioni ha continuato sulla strada aperta da quelle prime esperienze, definendosi soprattutto come composizione pittorica.
Le sue immagini sono molto ricercate, ma sempre necessarie – dichiarava Resnais – Antonioni maestro dell’astrazione al cinema? Io lo vedo piuttosto come un artista figurativo, perché fa sempre sentire con molta precisione dove ci troviamo”.
Avventura dello sguardo in cui il tematismo non è più condizione determinante per la costruzione cinematografica, con godardiana anarchia Antonioni ha operato nel cinema la stessa rivoluzione fatta da altri in settori altri dell’arte, e “come la pipa di Magritte non è assolutamente una pipa, essendo impossibile oltrepassare i confini dell’arte, e un oggetto trasferito dal mondo materiale allo spazio artistico diventa un’immagine, da vedere o da ascoltare” (Dmitri Kourliandski, da Note di presentazione di Emergency Survival Guide, Biennale Musica Venezia, 2009) così il regista ha dato inattese possibilità alla visione attraverso l’atto del guardare la realtà e la sua apparenza ingannevole.
Pensiero cinematografico e pensiero visuale, intraducibili in pensiero logico e in parola, nel cinema di Antonioni hanno prodotto conoscenza attraverso l’intuizione percettiva, quella che Arnheim chiamò “la sorgente base di tutta la conoscenza, una conoscenza del mondo, cioè quella da cui tutto comincia”.

Mostrare, non raccontare: “Detesto i film programmatici. Cerco semplicemente di raccontare, o, meglio, di mostrare delle vicende e spero che queste vicende piacciano, anche se sono amare”.
Muoversi dentro piccole storie, spesso banali, dove rispecchiare l’esistenza di ognuno, e porsi la domanda sul senso e sul come “fare cinema” in un’ Italia che cambiava rapidamente da paese contadino a paese metropolitano, un mondo in cui la  “malattia dei sentimenti” mostrava radici profonde e inattese, e la perdita della fiducia nel “soggetto come agente di storia” (Tassone) , l’indecifrabilità del reale, le dissonanze drammatiche del vivere si traducevano in nevrosi, alienazione, incapacità di comunicare.
Con una lezione di modernità tanto lucida e anticipatrice quanto difficile da comprendere nell’immediato, Antonioni ha messo a fuoco la crisi di una borghesia priva di solide tradizioni culturali, ampiamente compromessa con un passato troppo vicino e rimosso a fatica, preda di nuovi miraggi e corrosa da crolli alle fondamenta.
Una classe che andava assumendo un ruolo centrale nel tessuto sociale del Paese, preparandosi a mandare in Paradiso la classe operaia. Era la sua classe di provenienza, Antonioni ne conosceva a fondo le dinamiche, i valori e i disvalori. Assumere un punto di vista critico dal suo interno voleva dire inventare un linguaggio nuovo e riflettere sulla funzione dell’arte.
Non denuncia, non cinema politico e d’impegno sociale, allora. Molto di più.
Nebbie, sbarre, cancelli che tagliano le inquadrature, colori innaturali, contrasti, metropoli estive, assolate e desertiche, tutto definisce il senso di solitudine e spaesamento, di estraneità dell’essere umano tout court a quello che dovrebbe essere il suo habitat naturale.
Narrazione per sottrazione, fino alla progressiva desertificazione o alla deflagrazione totale. E infine guardare oltre, toccare altri continenti, verificare se anche lì… e scoprire che l’uomo non ha confini che in sè stesso.
Un grande testimone di un secolo e di una civiltà al tramonto, le sue opere, i segni del suo passaggio, dal 1912 al 2007.
Nel Museo Antonioni di prossima riapertura resteranno sempre visibili, a futura memoria.

Il Catalogo della Mostra è curato da Dominique Païni con testi di Dominique Païni, Alain Bergala, Carlo di Carlo, Bruno Racine, Maria Luisa Pacelli, Guido Fink, Gian Luca Farinelli, Roberto Chiesa, Josè Moure, Federico Rossin, Dork Zabunyan, Alberto Boschi, Rinaldo Censi, Lin Chi-Ming, Oksana Bulgakova, Barbara Guidi, ed è edito da Ferrara Arte Editore  2013, pagine 272, prezzo  48,00 Euro

Il percorso espositivo è articolato in nove sezioni:

NEBBIE | DESERTI | REALTÀ | SCOMPARSE | I COLORI DEL MONDO E DEI SENTIMENTI | SIMULAZIONI

LE MONTAGNE INCANTATE | ALTROVE | IDENTIFICAZIONE DI UN MAESTRO

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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