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Machete di Robert Rodriguez

E’ divertente come un vibratore l’ultimo film di Robert Rodriguez, ma al di là di una funzione masturbatoria di assoluto godimento ci sembra che la roccaforte di un cinema votato alla venerazione cultuale scivoli inesorabilmente verso la costruzione di un mausoleo fanzinaro dove i coglioni si sono definitivamente sostituiti al cervello; è una scelta evidente e museale, consapevolmente di regime, ma che oltre ad aver perso tutta la credibilità militante si colloca anni luce da quel piccolo miracolo che era Planet Terror, capace di trasformare la materia generica in una sinfonia astratta composta tra il colore e lo spazio. Estensione infinita del fake trailer contenuto in Grindhouse, tanto da introdurre due nuovi teaser in coda al film, Machete non va oltre questo avvitamento su se stesso; non ci spaventa la serie o il nichilismo della ripetizione, anzi, ma non siamo certo di fronte al feroce ed acuminato situazionismo di John Carpenter o alla potenza astratta di Death Proof che lavorava più sulla memoria che non sulla materia; Rodriguez ha bisogno di virare i colori delle immagini, applicare la patina vintage della pellicola maciullata dai graffi, far vedere che c’è, ne ha bisogno come di una superficie Disneyana rassicurante; rimane il senso profondo del gioco e una serie di trovate esilaranti, ma in tal senso, il sottovalutato Shorts ci era sembrato geniale nella sua aderenza “realistica” alla psiche infantile, con infinite mutazioni della crudeltà e uno splendido incipit come quello dei fratelli Blinkers. Machete è un giocattolo perfettamente funzionante ma è già stato smontato e rimontato troppe volte.

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