giovedì, Aprile 25, 2024

Shine a Light – di Martin Scorsese

Keith Richards e ScorseseNota è la passione del regista di Taxi Driver e Toro Scatenato per la musica ed in particolare per il rock, che ha sempre considerato parte integrante del suo cinema, sia come colonna sonora nei film di finzione (vedi: le mille difficoltà ad accaparrarsi per Taxi Driver la collaborazione di Bernard Herrmann, morto il giorno dopo la stesura dei brani), sia come oggetto di indagine, contemplazione, analisi nei molti documentari che ha dedicato a diversi mostri sacri del genere, a partire dall’aiuto-regia mai accreditata al film Woodstock di Michael Wadleight del lontano 1969, passando per The Last Waltz, intorno all’ultimo concerto del gruppo canadese The Band (1978), fino ai più recenti From Mali to Mississipi, alla ricerca delle radici del blues (2002) e No direction home (2005), documentario ciclopico su un’altrettanto ciclope della musica mondiale, Bob Dylan.
Come ha dichiarato egli stesso in un intervista con Michel Ciment del 1978: “Io non faccio differenza tra i miei film documentari e i miei film drammatici, anche se questi mi richiedono più fatica di quelli. Come potrei farne? La musica è la mia vita.” (( Parole di Scorsese riportate da Gian Carlo Bertolina nella sua monografia sul regista edita da Il Castoro, Milano, 1995, cit. p. 94. ))(Ci avevano già pensato, in tempi remoti e in modi diversi, il buon vecchio Godard con One plus one,1968, in cui le riprese delle prove dei Rolling Stones in sala d’incisione facevano da leit-motiv a cinque episodi deliro-sessantotteschi, e, più avanti, Al Ashby con Time is on our side, 1982, che concentrava lo sguardo vagamente gay sul mito Mick Jagger, più che altro).
Prodotto dallo stesso Jagger Shine a light non è però, come si potrebbe immaginare, un documentario sul fenomeno perdurante dei Rolling Stones, ma semplicemente la ripresa di due concerti tenutisi al Beacon Theatre di Broadway nel novembre 2006, supportati dal Clinton Fund (l’ex presidente non si fa mancare i saluti informal-ufficiosi alla band con lo stuolo di familiari, nipoti, amici e suocera in visibilio, nonché la presentazione del concerto ruffiana e pseudo ambientalista.)
Semplicemente però non è la parola giusta: Scorsese si ingegna per rendere la ripresa dell’evento altrettanto maestosa dell’evento stesso- si sa che i Rolling Stones, forti dei loro decenni e decenni di carriera, raggiungono il loro apice nelle performance live, che epifanizzano la loro inspiegabile, (sarà vero che drogarsi fa male? A guardare loro sembra di no) eterna, ginnica giovinezza.
Il film inizia con uno Scorsese ansiogeno che gioca divertito e disperato sulla sua preoccupazione: a poche ore dal concerto non ha ancora la scaletta precisa dei brani che verranno eseguiti, e non ha la minima idea di come organizzare la regia.
Tutto un bluff, sembra di capire; la regia è perfetta, e i mezzi ci sono tutti: diciassette macchine da presa che agiscono simultaneamente, dividendosi tra steadycam, dolly, louma crane e postazioni fisse, venti direttori della fotografia scelti tra i più valevoli sulla piazza (tanto per fare qualche nome, i premi Oscar Robert Richardson –The Aviator, JFK, John Toll-L’ultimo samurai, Braveheart, Andrew Lesine- la trilogia de Il signore degli anelli, Robert Elswith –Il Petroliere, Magnolia).
Ma quello che risulta ancora più sorprendente è la maestria del missaggio sonoro, che zooma i volumi a seconda dello strumento inquadrato, opera dell’eccellente David Tedeschi.
Uniche concessioni al documento che non sia la performance sono qualche breve frammento di vecchie interviste al gruppo all’epoca del loro esordio, come quella in cui Jagger, nel 1972, alla domanda “A sessant’anni pensi di fare quello che fai ora?” risponde con un sicuro e preveggenteCertamente.”, provocando le risatine ironico-sfottò degli astanti.

E invece i quattro pirati del rock ci sono ancora, le cineprese non nascondono (né potrebbero) nessuna delle miriadi di rughe reticolari che solcano impietose i loro volti, ma niente del loro fascino alchemico sembra compromesso: Jagger rimane una roboante icona sexy (il duetto con la di buona voce dotata ma inutile Christina Aguilera serve a ricordarci proprio questo), Richards, più statico, ma ugualmente sinuoso, non fa assolutamente rimpiangere i vecchi tempi, rubando per ben due volte il microfono a Mick per You got the Silver e The connection, e duettando amabilmente col compare Ronnie, altra chitarra di fuoco, per poi ammettere, in uno stralcio di intervista in cui i due gareggiano in bravura: “La verità è che siamo scarsini entrambi, in due siamo meglio di dieci.”

Le dinamiche del gruppo, infatti, e quanto in fondo questi vecchietti truccati suonino principalmente per sé stessi (del resto fama e soldi ne hanno già a valanghe,questo è un dato), emergono chiaramente dalla visione trasposta in film di quello che è essenzialmente un loro concerto: le occhiate che si scambiano, le parole sussurrate all’orecchio per noi giustamente inintelligibili, le pacche sulla spalla e quella miriade di piccoli gesti che le sapienti e tentacolari macchine di Scorsese catturano, senza mai essere invasive (non ci sono quasi primi piani-pathos), agiscono da altrettanti messaggi subliminali per il fan, ma anche per il semplice spettatore, che raccoglie le fila di un racconto elementare quanto misterioso.

Se è vero che l’artista si esprime al meglio solo attraverso la propria arte, si può desumere, vedendo questo film-concerto, che un documentario indagatore ci avrebbe detto meno degli Stones di quanto essi stessi dicono di sé semplicemente facendo il loro mestiere su di un palco.

Non è vero,del resto, che, come ha decretato la stampa tedesca- il film ha aperto lo scorso Festival di Berlino- si tratta solo di ‘un film di un fan per i fan’ (Morgenpost): chi non conosce bene i Rolling Stones e la loro musica (io sono una di questi) non può rimanere insensibile al magma visivo e sonoro che Scorsese, con la complicità confusa dei suoi idoli, riesce a creare, regalandoci un’ora e mezzo di gioioso intrattenimento. Valgono ancora e totalmente le parole di Carlo Scarrone, che a proposito di Ultimo Valzer scriveva: “ Il film non viene a risolvere la questione (cinema o vita, realtà o finzione) ma a complicarla. Il gomitolo si è di nuovo ingarbugliato: la vita non gioisce senza la finzione e la finzione non vive senza la vita.” (Filmcritica n.288).

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