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The Dark Knight Rises: l’elegia della fine

 

Sono morto, vero?
(Graham Greene, The Third Man)

The dark knight rises soggiace ad una duplice, convergente matrice interpretativa: una immanente, in quanto si tratta dell’ultimo incontrovertibile atto della saga di Batman rivista da Cristopher Nolan; una olistica, perché si è di fronte al risultato finale, o almeno definitivo, della dialettica supereroistica al cinema. L’intera pellicola è una ridefinizione strumentale del concetto esistenzialista di “morte”, in un’accezione fenomenologica e sistemica: la conclusione della saga è la sintesi procedurale dei capitoli precedenti, oltre che la marca stilistica che meglio caratterizza e identifica personaggi e luoghi. La fine intesa come palesamento del limite diventa dunque il valore assoluto del film, che però, in maniera inevitabile, si nutre della propria contraffazione. Un’ambiguità che Nolan corrobora innanzitutto a livello di sceneggiatura, nella tensione volutamente irrisolta tra finalismo ed eterogenesi, tra ordine e caos. Questa forzatura, trait d’union dell’ultimo Batman, non può essere spiegata se non con un’analisi epistemologica, che tenga conto non tanto dei precedenti cinematografici, quanto del sostrato cui Nolan può (talvolta deve) aver attinto.

Partendo da un dato formale, occorre attestare l’apporto fondamentale di Nolan alla causa supereroistica: il tentativo estremo di creare forme di realtà all’interno di un genere che si nutre di astrazione. Nel primo capitolo con la genesi di Bruce Wayne/Batman e Jonathan Crane/Scarecrow, nel secondo con Joker e Harvey Dent/Two-Face, nel terzo infine con Bane e Selina Kyle/Catwoman, Nolan non offre al pubblico la gettatezza tipica dei superuomini impegnati nella lotta tra bene e male, ma offre documentazioni in un continuo anelito di concretezza finzionale. Concretezza che si palesa sul piano visivo tramite la stilizzazione di personaggi (ma anche costumi, gesti, linguaggi, secondo un lavoro di destrutturazione filologica) estremamente credibili e mai surreali; concretezza del piano estetico perché, mutuando la terminologia di Sorlin, tende a una sintesi tra elementi analogici (in questo caso fumetto come disegno) e sintetici (il film in quanto tale) che già altri pittori-registi, come i connazionali Jarman e Greenaway, avevano tentato con successo; concretezza anche del piano strutturale perché Nolan apre un discorso che nell’arco della trilogia si conchiude per mezzo di figure che tornano nel terzo capitolo con ruoli funzionali alla storia (anche se a volte si sfiora il cameo). Questa ricerca di falsa veridicità (agli antipodi rispetto all’irrealtà onirica di prove come Inception), avvertita come nemesi di contraffazione, è la missione che Nolan si prefigge: nell’epoca del ritorno alla spettacolarità, delle favole da Terza Hollywood, il regista inglese cerca di avvicinare i propri spettatori a forme di partecipazione più autentiche: in altre parole vuole che il proprio pubblico creda alla rappresentazione. Il retropensiero che permea per intero l’ultimo film è dunque il sopraccitato senso di risoluzione, che però viene ponderato in modo tale che tutti gli elementi elencati finora vi partecipino direttamente: proprio la credibilità dei plot alla Nolan permette di avvertire la drammaticità di una fine quantomeno imminente.

Eppure non basta il dato concettuale a rendere gli spettatori partecipi della fine di Batman; occorre una prassi filmica e soprattutto uno sviluppo per mimesi. Proprio quest’ultimo elemento, cioè la possibilità di immedesimazione, costituisce la più grande controversia alla stesura di una storia. Nolan decide che l’illusione di realtà debba essere rappresentata dalla paura di un olocausto: la Lega delle Ombre (che era stata lasciata a Batman Begins) tiene Gotham City sotto scacco per mezzo di un ordigno nucleare. Non sazio di cinema apocalittico e catastrofico (non solo il totemico The third man, ma anche il più blasonato 007 – Goldfinger e magari anche il Doctor Strangelove) Nolan conosce l’effetto che l’esplosione atomica, anche se solo paventata, può avere sulla pellicola. Proprio per questo la inserisce come elemento portante dell’ultimo film, in una sorta di crescendo rispetto ai capitoli precedenti. Se nel primo film era il palazzo Wayne ad essere minacciato, mentre nel secondo i passeggeri di due navi, ora c’è l’intera città: un luogo i cui abitanti hanno depravato e violentato, condannato quindi alla distruzione come la terra desolata elliottiana. In questo contesto si inserisce l’altro motivo di analisi, cioè la prassi filmica. Come in ogni thriller che si rispetti è il suspence che scandisce il ritmo della pellicola; Nolan gioca con il tempo, creando dei veri e propri MacGuffin che impegnano l’attenzione dello spettatore e permettono parallelamente l’avanzare della vicenda: ad esempio, mentre il tempo passa e Gotham rischia di saltare in aria, Bruce Wayne vive una profonda lotta contro le proprie paure. In questo la bomba atomica si costituisce come dato secondario rispetto ad altri elementi della storia, ma nevralgico per lo sviluppo narrativo. Il suspence, qui fondamentale, è invece marcato dalle scelte di regia: montaggio parallelo, velocità sostenuta nei cambi di scena e movimenti di macchina invasivi, che, asserviti alla messa a fuoco del dettaglio, accompagnano e preannunciano le azioni dei personaggi pur mantenendo una freddezza kubrickiana.

Nonostante la componente tecnica abbia un ruolo cardine nel successo di The Dark Knight rises e dei precedenti, tutto è secondario all’operazione epistemica attuata da Nolan: questi ha creato de facto un codice che si basa sull’intuizione dell’autocitazione come forma di testo; venendo meno il codice, le intuizioni di regia non sarebbero altrettanto comunicative. Eppure non c’è solo la scelta di un linguaggio fra tanti: i Batman di Nolan sfuggono le facili classificazioni, dal momento che, riprendendo Morandini, “non sono remake, non un seguito, non un prequel”. La poetica del supereroe che Nolan traccia inizia nei primi due film e si conclude in quest’ultimo in una sorta di autocelebrazione; quella del regista inglese non è un’operazione condotta per eccesso di fonti, ma tramite una raffinata sintesi degli elementi tradizionali del racconto. Anzitutto del tempo, che qui vive di una speciale frenesia narrativa che si associa alla ritrosia extradiegetica: il ritmo del film e le fasi della trilogia convergono di pari passo verso una fine distruttiva e inevitabile. C’è poi lo spazio, altra prova del revisionismo attuato da Nolan: mentre nei primi due film venivano analizzati i luoghi rispettivamente fuori e dentro Gotham City, in quest’ultimo capitolo convivono entrambi in una sorta di ostinata rievocazione. Questi luoghi sono tanto connotati nella loro identità quanto asfittici e isolati nell’essenza: Nolan indugia sul dato spaziale proprio perché il setting nei suoi Batman non è un semplice teatro, ma la rappresentazione metaforica dell’identità del suo personaggio, che si consolida man mano che lo spazio si limita e definisce.

Il protagonista è però la categoria narrativa più rimaneggiata da Nolan: non più caricature gotiche e tronfie alla Burton/Schumacher, ma tanto citazionismo trasversale. Il Batman di Nolan è un eroe byronico che innalza a vessillo i propri psicologismi. Cinematograficamente è più vicino a quel filone di outsider di cui abbonda la tradizione inglese: basti pensare a Ridley Scott e ai suoi replicanti in Blade Runner, alle prove di Kubrick in A Clockwork Orange e 2001 – A Space Odissey, a Ken Russell in Mahler o Altered States, volendo anche agli esperimenti di Jarman per Caravaggio. Sembra quasi che i cineasti inglesi prediligano valorizzare la figura dell’eroe compromesso ed emarginato. Una rilettura che Nolan attua nel momento in cui tramuta il suo Batman da eroe a volontario antieroe. Influenzato non solo dagli esempi suddetti ma anche dai modelli di eterni maledetti alla Kazan e Ray, e soprattutto da certe mode fumettistiche (i mostri sacri Miller e Moore – quest’ultimo, come Nolan, profeta in terra straniera), il regista inglese crea un eroe in chiaroscuro che catalizza tutta la drammaticità del film nella definizione di una forma di elegia cinematografica: un’elegia della fine, per l’appunto, all’interno della quale è la figura centrale del protagonista a determinare le varie fasi del racconto. Riprendendo lo studio di Vogler sulla struttura del mito nel cinema, si può ravvisare come il Batman di Nolan riproponga nel dettaglio le tre fasi del viaggio dell’eroe: un primo momento di consapevolezza limitata (Batman Begins), un secondo momento di ricerca di grande cambiamento (The Dark Knight), un terzo momento di padronanza finale del problema. L’arco del personaggio diventa elemento strutturale in quanto si sovrappone al logico sviluppo sequenziale dell’intera trilogia.

Il finale come elemento conclusivo dell’elegia della fine (giochi di parole a parte) è una pura formalità. Molto spesso è un trionfo, altre volte sottopone i personaggi a un cambiamento, in certi casi implica il sacrificio dell’eroe. Nolan lascia aperta la questione circa la morte della propria creatura; lo fa convinto (e i finali di molti suoi film ne sono una prova) che siano la perspicacia e le speranze degli spettatori a scegliere il senso e seguire una determinata strada interpretativa. Anche in questo porta a termine un piccolo capolavoro filologico: dal momento che non c’è altra forma di modernità che la reazione, Nolan ricorda a tutti come in ogni mitologia, finanche fumettistica, la fine (perché di questo si è parlato finora) non è altro che un nuovo inizio.

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Davide Minotti nasce a Frosinone nel 1989. Dopo un'esperienza alla John Cabot University di Roma, si occupa ora di Germanistica e Scandinavistica tra l'Università degli Studi di Firenze e la Rheinische-Friedrich-Wilhelms-Universität di Bonn, dove vive. Appassionato di letteratura e cinema, spera che un giorno questi interessi possano diventare qualcosa di più concreto. Nel frattempo scrive e progetta cortometraggi nel perenne tentativo di realizzarli.
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