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Venezia 68 – Concorso – Tao Jie (A Simple Life) di Ann Hui (Hong Kong, 2011)

Tutti gli ultimi progetti di Ann Hui, dal dittico The Way We are / Night and Fog fino al recentissimo All About love, hanno contribuito ad accentuare quel mutuo travestimento della realtà in finzione e viceversa; non si tratta di una novità nel cinema della grande autrice Cinese ma di una modalità che invece di disintegrare il genere nel flusso ambiguo del reale, lo tiene in vita andandolo a scovare tra le pieghe degli eventi; è il caso del dramma familistico di The Way We are, del suo “gemello” più cupo, Night and Fog, e della forma più leggera di All About love. In tutti i casi Ann Hui costruisce un cinema dal forte impatto politico, non tanto per i temi trattati ma per il modo in cui si avvicina e si allontana dalla realtà. Se il controverso  Night and fog esasperava l’ambiguità del dispositivo in una sorta di saggio narratologico sperimentale sulla frammentazione del punto di vista, manipolando memoria, finzione e propensione documentale, l’ultimo film della regista HongKonghese presentato a Venezia 68 in concorso, ritrova un equilbirio naturale sorprendente nella fusione impercettibile tra la levità di una commedia crepuscolare e la consueta attenzione ai volti, i gesti minimi e l’osservazione del quotidiano. Ah Tao, interpretata dalla veterana Deannie Yip, è a servizio come domestica per la famiglia Leung da circa sessant’anni; rimarrà a fianco dell’erede più giovane, un produttore cinematografico intepretato da Andy Lau, instaurando un rapporto materno, soprattutto attraverso la preparazione del cibo. Quando Ah Tao sarà colpita da un infarto in conseguenza del quale dovrà rimanere sotto osservazione in una casa per anziani, sarà l’erede Leung a prendersi cura di lei, in un percorso verso la morte che Ann Hui filma senza strappi ma con quella presenza rispetto alle mutazioni invisibili della vita che forse era presente solo nel cinema intimo e filosofico di Edward Yang. Ancora una volta, un film come A Simple Life rende assolutamente vano e ridicolo qualsiasi tentativo di distinguere, in sede critica, finzione e documentario; ed è chiaro anche per come la Hui utilizza i corpi simbolo per due generazioni diverse del cinema HongKonghese, demistificandone gli aspetti retorici, lavorando in fondo su una funzione che è quella di una riduzione dell’impermeabilità tra registri, catturando gli stati emotivi e la commozione da un agire che riduce quasi a zero gli artifici visibili dell’interpretazione. Ma è anche attraverso questa riduzione di una barriera in fondo, che Ann Hui, fine conoscitrice delle regole del genere, riesce ad isolare alcune sequenze nei tempi di rilascio della commedia, come per esempio tutti i momenti legati al rapporto dell’anziano signor Kim con Ah Tao, dove il primo chiede in continuazione denaro alla seconda,  in una schermaglia leggera che costringerà Andy Lau a pedinare Kim per scoprire che in un impeto di seconda gioventù, il vecchio utilizza quei soldi per andare a puttane. Sarà l’intercessione di Ah Tao (“lascialo divertirsi, fin che riesce a farlo”) ad impedire che Andy Lau si arrabbi, in una sequenza che in pochi istanti racconta i sentimenti di tre persone e il profondo legame di rispetto reciproco che lega due di loro; come a dire che anche attraverso lo spazio di un’azione orchestrata, Ann Hui riesce ad avvicinarsi alla verità.

 

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