Home Venezia 69 concorso Venzia 69 – Concorso – Paradies: Glaube di Ulrich Seidl (Austria/Germania/Francia, 2012)

Venzia 69 – Concorso – Paradies: Glaube di Ulrich Seidl (Austria/Germania/Francia, 2012)

Il rapporto con le pellicole di Ulrich Seidl è estremamente ambiguo: si è liberi di accettare il linguaggio imposto dal regista austriaco e goderne spassionatamente i contenuti, oppure si cerca di forzare la pura marca visiva del film, in modo da intravedere il prisma di simboli di ogni singola scena. Nessuno dei due atteggiamenti è preferibile all’altro, perché la chiave di lettura di Seidl risiede interamente nell’atteggiamento adottato dello spettatore, il cui sguardo, serafico, codino, ma anche consapevole e indulgente, deve saper abbracciare la perversa moralità del film per poi slegarsene. Queste considerazioni erano pertinenti già prima della trilogia Paradies, di cui questo Glaube rappresenta il secondo capitolo: un lavoro massivo che racchiude ottanta ore di girato e ha richiesto quattro anni di lavoro; una trilogia che Seidl vorrebbe rendere un’unica intensa opera, nonostante la suddivisione episodica doni ai singoli capitoli un’innegabile, coesa autonomia. La protagonista di Glaube è Anna Maria, una donna diversa dalla sorella Teresa, protagonista del precedente Liebe: Anna Maria non cerca il proprio personalissimo paradiso, ma l’ha già trovato in un cattolicesimo compulsivo, a tratti medievale. Secondo la tradizione del Wandermuttergottes (i devoti predicano porta a porta il culto della Madonna) la protagonista vaga per le zone più disparate dell’area metropolitana viennese; l’obiettivo dichiarato è il tentitivo di riportare l’Austria ad un cattolicesimo giusto e reale, che l’immigrazione e i cambiamenti di costume minacciano costantemente. La crisi per Anna Maria è costituita dall’inaspettato ritorno del marito, musulmano e paraplegico, che la donna aveva sposato prima di abbandonarsi anima e corpo alla fede: Anna Maria vive la presenza del marito come una prova estrema cui Dio vuole sottoporla.

La religiosità cieca e pervertita che permea il film non è l’elemento primario, ed anzi è interdipendente rispetto a una carnalità a tutti i costi indecente: una commistione rappresentata dal corpo nudo della protagonista, laido perfino nell’atto della flagellazione. In questo modo il senso del martirio in Glaube si definisce secondo il paradigma del lubrico. Seidl sostiene la struttura del film secondo il proprio codificatissimo metodo: assenza di sceneggiatura, improvvisazione degli attori, ordine cronologico del girato, assenza di commenti musicali (a meno che non siano interni alla scena). La fissità delle inquadrature, quasi asettiche nella loro irragionevole geometria, cesellano quell’atmosfera da docudrama tanto cara al regista austriaco. Questa staticità sarà anche fondamentale nella costruzione dell’immagine per Seidl, ma contraddice quanto di nuovo intravisto nel primo capitolo Liebe: il maggiore ricorso alla telecamera a mano e l’ambientazione esotica donavano al film un’insperata ed efficace veridicità. Questo dato formale, sebbene marginale, è indice di una certa autoreferenzialità cui Seidl sembra non sapersi tirare indietro. Mentre i precedenti lavori potevano al massimo richiamare le opere di altri autori (dalle polifonie velenose di Cassavetes o il più recente Solondz, alle architetture spietate di Herzog o Haneke), qui Seidl cita programmaticamente se stesso: l’esempio lampante è Canicola – Hundstage, del quale si ripropone non solo il cast (l’eccellente Maria Hofstätter, le cui due interpretazioni sembrano richiamarsi e implementarsi a vicenda), ma anche il setting e le soluzioni espressive. L’impressione è che questa sistematicità nei motivi sovrasti l’istintività cui i film di Seidl hanno sempre aspirato.

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