martedì, Marzo 19, 2024

Samaris, elettronica e voce nel segno dell’eleganza: la foto-intervista

L’Islanda non smette mai di stupire, ormai è un dato di fatto. Nuovi gruppi continuano infatti ad emergere dalla terra del ghiaccio e del fuoco, ispirandosi in parte ai grandi connazionali che ormai da anni sono star mondiali e che è praticamente inutile citare, ma soprattutto portando con sé nuove elaborazioni, personali e molto interessanti. È il caso dei ventenni Samaris, ultima scoperta di casa One Little Indian, un trio molto particolare (voce, clarinetto ed elettronica) in grado di creare suggestioni inedite ed avvolgenti facendo interagire alla perfezione i tre elementi alla base della loro musica.

Le loro sono composizioni sinuose, da cui è facile farsi trasportare in una dimensione onirica, una versione calda (nonostante la latitudine) di certa elettronica warpiana, con un tocco di eleganza francese che non fa mai male. I tre giovani islandesi hanno fatto tappa anche in Italia, al Magnolia di Segrate lo scorso cinque settembre, per un concerto che ha confermato quanto di buono emerso durante l’ascolto del disco. Prima della loro esibizione abbiamo avuto modo di parlare con Jófríður Ákadóttir, la cantante, che ci ha spiegato meglio da dove viene e dove vuole arrivare la musica dei Samaris. Ecco cosa ci ha detto. [Le foto dell’articolo sono di Francesca Pontiggia]

Samaris è il vostro primo disco con distribuzione internazionale ed esce per One Little Indian. Non accade spesso che una band così giovane sia nel roster di un’etichetta così importante. Come siete riusciti in questa impresa?

È successo poco dopo l’Iceland Airwaves l’anno scorso, a novembre se non sbaglio. Il manager della One Little Indian partecipò al nostro concerto e ne fu molto impressionato, dopo di che volle iniziare la collaborazione. Poi lo incontrammo in Islanda, dove viene spesso, e ci trovammo molto bene con lui. Poi, parlando e discutendo abbiamo approfondito la conoscenza e ne siamo molto felici. È andata così, semplicemente.

Definite la vostra musica come “vocal electronic”. Perché la voce è così importante per voi? E come la immergete nel suono elettronico?

In realtà non lo so, è una domanda difficile! Penso che la voce sia importante per qualcosa che ha a che fare con l’istinto umano, per esempio a chiunque piace sentire cantare, fin da piccoli si vuole che la propria madre canti una ninna nanna. È qualcosa di molto profondo dentro di noi. Per quanto riguarda il mix tra voce e suono elettronico, è una cosa molto interessante, perché la voce e il canto ci sono da sempre, mentre l’elettronica no, c’è da circa cinquanta anni, quindi è una forma relativamente nuova di suono, soprattutto se confrontata proprio con il canto. Quindi penso che il nostro sia un concetto abbastanza nuovo, non totalmente, ma comunque nuovo, e che possa essere ancora esplorato in molti modi. Io sono una cantante, quindi per me è ovviamente importante, ma penso che sia una bella cosa potersi esprimere in questo modo, e penso che lo sia anche per il clarinetto, che ha un suono simile a quello della voce e che è uno strumento che devi suonare come se stessi cantando. Mi sembra che ci sia una specie di danza tra il clarinetto e la voce, c’è un interplay tra di loro, è come una conversazione in cui le melodie si scambiano. È molto bello giocare su questi due elementi, perché sono entrambi importanti e devono essere equilibrati nel modo giusto, perché, come ho detto, è come se entrambi stessero cantando.

Cosa puoi dirci sui testi? Di cosa parlano solitamente? Pensi che il fatto che siano in islandese possa frenare in qualche modo la diffusione della vostra musica?

Forse, è una cosa su cui si dibatte spesso. Penso che probabilmente possa essere un freno, ma non è una cosa drammatica, dato che il nostro obiettivo non è diventare particolarmente famosi. Certo, è molto bello quando la gente vuole ascoltarti, ed è ancora più bello avere ascoltatori che sono buoni ascoltatori e che prestano molta attenzione a quello che crei, che è importante per te perché è la tua musica, e questo spesso non si ottiene puntando alle masse, ma a qualcosa di più intimo. Penso che tu possa avere un piccolo pubblico che ti apprezza veramente oppure un grande pubblico che però non sempre capisce ciò che fai. Io preferisco avere un pubblico più piccolo ma buono. L’importante è essere sinceri rispetto a ciò che si vuole ottenere, e quello che noi vogliamo è usare la voce, i testi e le melodie per creare un suono. Se lo capisci è qualcosa in più, se non lo capisci deve essere qualcosa di bello, misterioso e in grado di colpire e di portare la tua mente ad usare l’immaginazione. Se facessimo la stessa musica usando parole italiane, la troverei comunque affascinante, perché inizierei a sentire il suono che c’è nel cuore del linguaggio. Questa è una cosa eccezionale della musica, quello che riesce a tirare fuori dal suono di ogni lingua.

Nella vostra musica è facile sentire “vibrazioni” islandesi, ma è anche facile trovare sensazioni più europee, per esempio l’elettronica francese e tedesca. Sei d’accordo?

Penso di sì, traiamo ispirazione da dovunque, da qualunque cosa ci piaccia. L’Europa è più vicina a noi rispetto all’America o all’Asia, quindi ha ovviamente qualche tipo di influenza per la sua vicinanza. Ascoltiamo ogni tipo di musica, quindi anche quella francese e tedesca, e ci ispiriamo a diverse fonti, non solo elettroniche e classiche, ma anche punk-rock, perché per noi vale l’idea che c’è alla base di esso,cioè che ciò che conta non è cosa sai ma quello che fai. Naturalmente anche l’Islanda è una grande influenza, perché è un posto molto isolato dove però accadono un sacco di cose. La gente si merita che queste cosa accadano, perché non è un posto da dove è facile andarsene e chi rimane si muove per fare molte cose, in tanti suonano in più di una band e provano cose diverse, con risultati sempre interessanti.

Sul singolo c’erano due remix e ci sono dei remix anche per le altre canzoni del disco. Che tipo di remix ti piace di più? Quelli che stravolgono la canzone, quelli orientati verso la dance o che altro?

Mi piacciono i remix perché permettono a qualcun altro di tradurre la tua musica, è come se facessero una traduzione in un’altra lingua cambiando il suono. Mi piacciono tutti i remix che sono stati fatti, perché sono stati fatti da persone che conosciamo ed è stato come dar loro qualcosa di nostro e dirgli “tieni, fanne qualcosa di bello”. Finora hanno sempre fatto qualcosa di molto personale. In futuro vorremmo farci proporre nomi che non conosciamo dall’etichetta e provare a scegliere a occhi chiusi per vedere cosa accade in quel caso. Il mio remix preferito sull’album è quello di Hljóma Þú, perché sembra un complimento alla nostra canzone, sembra che dica che è già molto bella in versione originale, ma al tempo stesso ne tira fuori alcuni dettagli, la rende più profonda. Mi piace anche quello di Stofnar Falla, che è più verso la drum’n’bass, perché la drum’n’bass è qualcosa a cui non avrei mai pensato come legato al nostro lavoro, quindi è qualcosa che mi ha aperto la mente. (continua nella pagina successiva)

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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