Abdullah Miniawy è una figura poliedrica nella scena contemporanea internazionale, i linguaggi che abita sono quelli della poesia, del canto, della composizione e della performance teatrale. In residenza stabile a Parigi, ha radici culturali egiziane che gli consentono di fondere la tradizione vocale araba, attingendo in particolare al repertorio sufi o al canto classico arabo, insieme ad esplorazioni sperimentali.
Suo terreno d’elezione è quello delle musiche ibride, dei linguaggi post-etnici e di tutte quelle strategie che interrogano e problematizzano il confine tra avanguardia e tradizione.
In particolare, con Peacock Dreams, album uscito nel 2025, Miniawy ha scelto una formazione in trio costituita dai trombonisti Robinson Khoury e Jules Boittin, abbandonando in parte l’ancoraggio alle tecnologie modulari, ai loop o ai sample che avevano caratterizzato alcuni progetti precedenti, privilegiando quindi una tessitura più limpida e concentrata sulla relazione tra voce e ottoni.
«Un pavone sogna di essere un poeta. Riflette, cercando di spogliarsi dei suoi colori, trasformando le piume in una sfumatura di carne» scrive Miniawy nella comunicazione stampa che accompagna la presentazione di Peacock Dreams, riflettendo una tensione interna tra presenza e astrazione, colore e voce, materia e spiritualità, e al contempo lanciando una sfida formale concentrata sulla riduzione dell’ornamento, per far emergere il corpo vocalico, cuore di un discorso poetico, politico ed esistenziale.
Il set in trio proposto alla Biennale Musica 2025, con i tromboni di Khoury e Bottin, ha costruito un’esperienza densa e di sottrazione, basata su quella tensione specifica in cui ogni respiro e ogni alito sono capaci di creare spazio.
Nell’inizio sospeso di un silenzio calibrato e dalla qualità rituale, la vocalità di Miniawy entra gradatamente, con un canto sommesso a cui rispondono i timbri vellutati dei tromboni. Un dialogo che sembra cercare il primo punto di contatto tra fiato e voce, in una fase inaugurale che accentua la scrittura e dove ogni fiato sembra un tassello decisivo.
Poem of the Poems e Signature giocano subito con transizioni delicate tra i melismi della voce e le pause sospese. Di tanto in tanto i tromboni si distendono in cluster smorzati, attraendo il canto nel raggio di un accordo imperfetto. Cresce la tensione, ma senza forzature, perché l’insieme resta sempre sospeso tra introspezione e attesa, fino ai frammenti più audaci dove gli spostamenti dinamici e le accelerazioni si fanno più intense, con le improvvisazioni testuali di Miniawy che passano dall’arabo classico ad altre varianti poetiche. Una tensione che disegna il tempo e la densità sonora.
Qui i tromboni sono interlocutori attivi, forgiano spazi e conducono tutta la sala verso una vera e propria vibrazione corporea dove si ha la percezione che il suono provenga dall’ambiente stesso e come in uno specchio, il secondo fosse eco del primo.
Emerge quindi il contrappunto tra voce e fiati, nuovo codice barocco riletto entro la cornice della spazialità contemporanea.
Khoury in particolare, che è responsabile in più parti delle composizioni, utilizza una respirazione specifica per estrarre dal trombone qualità percussive e generare un’atmosfera ora industrial altre volte più vicina a terribili reminescenze sonore di ambientazione bellica.
Miniawy è al centro, con i trombonisti che occupano simmetricamente i lati. Sullo sfondo, una delle stelle frattali che caratterizzano alcune scenografie della Biennale Musica 2025, e che estendono in una serie di variazioni alternative la grafica ufficiale. La profondità infinita dello sfondo teatrale è generata dal contrasto tra il nero profondo e una coltre di fumo che disegna tridimensionalità prospettica.
La voce di Miniawy sembra emergere da quella foschia come un canto ancestrale e potente.
E se la dissolvenza è ciò ci consente di entrare gradualmente nel suo spazio sonoro, l’uscita è determinata da un coinvolgimento rituale del pubblico, con Abdullah che spinge tutta la sala alla ripetizione sensuale e collettiva di un verso ritmico ripetuto.
Una dimensione popolare che significa attenzione alle proprie radici e al valore terapeutico del canto.
C’è in questo senso un’assonanza formidabile con lo svuotamento gravitazionale che ha concluso il concerto di Meredith Monk nello stesso spazio appena un’ora prima, dove la centralità della voce come dispositivo espressivo e riflessivo, può trasformare il testo o il fonema, in materia viva pre-linguistica, finalmente davvero apolide e comprensibile da qualsiasi latitudine.






