venerdì, Marzo 29, 2024

Daughn Gibson, il Terminator honky-tonk: la foto-intervista

La proposta musicale di Daughn Gibson, ex camionista di Nazareth (in Pennsylvania, non in Palestina come scritto da alcuni), è una delle più interessanti emerse dagli Stati Uniti nell’ultimo paio d’anni, una possibile moderna colonna sonora American Gothic che aggiunge beats ed inquietudini elettroniche ad una base country abbastanza tradizionale. La Sub Pop non se l’è fatto giustamente scappare ed ora se lo coccola, mandandolo in giro per il mondo a promuovere Me Moan, il suo secondo album, passando da palchi molto importanti come quello del Primavera Sound ad altri più piccoli ma ugualmente validi, come quello del Tambourine di Seregno, dove lo abbiamo incontrato poco prima della seconda delle sue due date italiane, lo scorso 4 dicembre 2012. Abbiamo così scoperto, tra le altre cose, il suo background, molto diverso da quello che ci si aspetterebbe, e anche perché abbia atteso così tanto a svelare al mondo la sua voce da crooner, in grado di mettere al tappeto ogni essere di sesso femminile all’interno del locale, compreso la nostra Francesca Pontiggia che ha realizzato le foto di questo articolo. Ecco cosa ci ha detto.

Penso che la tua musica sia un perfetto esempio di equilibrio tra tradizione ed innovazione. Parti da radici americane, poi passi dal canto crooneristico, dalla new wave e dall’elettronica. Come lavori per far convivere tutti questi elementi?

Non lavoro duramente per farlo, cerco semplicemente di fare musica country usando un solo strumento, che è il laptop con i suoi software. Se avessi una band ufficiale a cui dire cosa fare probabilmente farei qualcosa di più tradizionale, ma dato che sono legato a questo macchinario solitario, quello che esce è così.

Penso che ci sia stata una grande evoluzione tra il primo ed il secondo disco. Mi sembra che nel primo tu abbia messo lì le tue idee e che poi nel secondo tu le abbia esplorate più in profondità. È una giusta interpretazione?

Sì, la penso così, secondo me è andata così. Nel primo album c’erano degli schizzi in bianco e nero, nel secondo li ho rifiniti e colorati un po’. Nel prossimo disco continuerò e il colore aumenterà ancora.

Hai tratto ispirazione da altri artisti per lavorare sul country in questo modo? Mi vengono in mente Gravedigger’s Blues di Mark Lanegan, alcune cose di Johnny Cash con Rick Rubin…

Non necessariamente. Io vivo in una piccola città in Pennsylvania, dove c’è una bellissima stazione radio che passa soprattutto musica degli anni Sessanta e Settanta, anche un po’ Ottanta, musica country vintage. È quasi tutto ciò che ascolto, sento una canzone nuova ogni giorno e sono ispirato da ognuna di esse. Però generalmente mi siedo e cerco di mettere assieme tutto ciò che mi viene in mente, lavorandoci fino a che non raggiunge una forma che mi piaccia.

In All My Days Off mi sono venuti in mente i Lambchop, forse per il modo in cui suona la chitarra. Chi è il chitarrista in quel brano, tra quelli accreditati sull’album?

È il chitarrista che suonerà con me anche questa sera, Jim Elkington, che in quel caso suona una chitarra con le corde di nylon, con ad accompagnarlo Justin Brown alla pedal steel.

Tra i chitarristi c’è anche John Baizley dei Baroness. Come l’hai coinvolto nell’album?

Ho incontrato John anni fa, quando suonavo in una band stoner, abbiamo suonato assieme ai Baroness in una cantina, quando stavano iniziando la loro carriera. Passammo tutta la serata assieme, bravissimi ragazzi. Poi ho perso i contatti per una decina d’anni, durante i quali i Baroness sono diventati molto famosi. Abbiamo un amico in comune, tramite il quale ho chiesto aiuto a John, che si è dimostrato interessato. Ci siamo scambiati qualche traccia, poi sono andato a trovarlo a Chicago per lavorare in modo un po’ più formale. È un grandissimo.

Anche a lui piace il country o era una cosa strana per lui suonare sulle tue canzoni?

Non credo sia un fan del country quanto lo sono io, ma il fatto importante per la riuscita della collaborazione è stato il mio rispetto per il suo background, che volevo venisse fuori più che una sua possibile imitazione del country. In molte occasioni le registrazioni si sono fatte così: “ascolta, suona” e si teneva la prima cosa che veniva fuori, volevo tenere la sua prima reazione d’istinto, non fargli cercare di suonare in modo tradizionale.

Una delle mie canzoni preferite è Kissin On The Blacktop, per il lavoro sul ritmo che viene fatto, portandolo verso il rock’n’roll. Puoi dirci qualcosa sulla nascita di quella canzone?

Mi ricordo perfettamente il momento in cui ho fatto quel giro di chitarra, mi sono esaltato perché ho subito pensato che fosse perfetto. Poi mi sono buttato su quella canzone, che alla fine è risultata composta da così tante parti e da così tanti piccoli strati sonori, quello percussivo, quello della chitarra, l’assolo di lap steel. Mi piace tantissimo, forse non ha tantissimo senso all’interno del disco, è una specie di mostro, ma la amo. Suona stranamente meccanica rispetto al resto del disco, ma è stato quello il divertimento nel farla, cercare un incrocio tra vecchio juke country e elettronica robotica. (continua nella pagina successiva…)

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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