martedì, Marzo 19, 2024

Death and Vanilla – To Where The Wild Things Are: la recensione

To Where The Wild Things Are è come un viaggio, sia all’interno di se stessi, che verso mete sognate ed ideali. Un percorso metafisico alla volta degli angoli più nascosti dell’inconscio o, al contrario, alla scoperta di scenari fantastici, che si slegano dall’esperienza di chi ascolta – e sogna – per iniziare ad esistere autonomamente. Non a caso l’album prende il nome dall’omonimo libro illustrato di Maurice Sendak, classico della narrativa americana per bambini, come a voler sottolineare la profonda unicità di un approccio candido ed incontaminato all’esistenza; una manifestazione totalmente libera della mente, priva di condizionamenti o preconcetti.

Nel lavoro dei Death and Vanilla, band psych-pop di Malmö, realtà ed immaginazione si confondono: il confine fra essi si fa labile ed incerto, e ciò che conta è lasciarsi trasportare dai sensi, spinti da chimere istintuali. I suoni suggeriscono scenari fiabeschi, visioni allucinatorie, ma anche apparizioni angoscianti e mostruose; forza figurativa condivisa non soltanto col testo di Sendak, ma anche con la sua trasposizione cinematografica, più corposa e romanzata, ad opera di Spike Jonze.

D’altronde, l’interesse del gruppo svedese per la settima arte si era già palesato più volte: il precedente lavoro Vampyr – perla poco conosciuta, distribuita in un’edizione limitata da 150 copie in formato musicassetta – è una sonorizzazione dell’omonima pellicola di Carl Theodore Dreyer, registrata dal vivo in modo semi-improvvisato durante la proiezione dell’opera all’interno del Fantastik Film Festival di Lund nel settembre del 2012. Inoltre, quasi tutti i videoclip sono montaggi di frammenti di opere cinematografiche più o meno note; ad esempio, quello di California Owls, primo singolo estratto dall’ultimo album, contiene passaggi da Kusama’s Self Obliteration, breve documentario del 1967 sull’omonima artista giapponese, e da Veruschka – Poesia di una donna, lungometraggio pressoché dimenticato, diretto da Franco Rubartelli e datato 1971; le sperimentazioni visive di quest’ultimo sembrano riflettere il proprio lirismo nelle atmosfere tenui ed eteree del brano, la cui carica evocativa è rafforzata da impalpabili suggestioni alla Morricone, artefice delle ammalianti e languide musiche del film. C’è da dire che il cinema e le sue colonne sonore hanno sempre esercitato un ascendente intenso sulle ricerche del gruppo: quelle di certo sci-fi a cavallo fra anni ‘60 e ‘70, passando per le atmosfere cupe ed opprimenti dell’Angelo Badalamenti di Twin Peaks, l’horror italiano, il calore di Cinecittà, i contesti romantici e vivaci della Nouvelle Vague.

Dopo una serie di precedenti lavori, passati sfortunatamente in sordina, i Death and Vanilla sfornano un nuovo LP, in uscita a maggio per la londinese Fire Records, che ad essi rimane fedele per ricchezza e visionarietà: un mélange di risonanze evanescenti ed echi trasognati, sfuggenti nella propria vaghezza, screziato da dondolii tormentati e culmini emotivi.

Un disco variegato e difficilmente classificabile, prodotto e registrato direttamente dalla band utilizzando un solo microfono, un vecchio Sennheiser. Equipaggiati di una strumentazione perlopiù analogica e vintage, comprendente vibrafono, organo, mellotron e moog, alterata da reminiscenze elettroniche, campionamenti fruscianti e dissonanze artificiali, i Death and Vanilla si avventurano in terreni al tempo stesso retrospettivi ed avanguardistici, a cavallo fra riecheggiamenti nostalgici, spinta verso la sperimentazione ed intimo ripiegamento. Il risultato è un baroque pop stralunato e distorto, condito da guizzi di neo-psichedelia e barlumi surf e sunshine, con strizzate d’occhio anche a certa library music, muzak ed easy-listening; un revival di sonorità rétro, dalle tinte a tratti carezzevoli e naïf, ricordo del yé-yé francese e delle sue girls, a tratti più intime e nebbiose, il tutto edulcorato da un morbido e pastoso filtro dream pop.

Il tappeto musicale è avvolgente: una caleidoscopica miscela di melodie rarefatte, sonorità riverberate, disarmonie agrodolci, su cui s’intessono arrangiamenti raffinati ed intricati. Al di sopra di questo paesaggio sonoro irreale, ma al contempo rigoglioso, si dispiega la voce di Marleen Nilsson, fluttuante e balsamica – ora sussurrando dolcemente, ora cantilenando da profondità remote; il suo canto richiama i versi sensuali e soavi di Hope Sandoval dei Mazzy Star, il soft pop luminoso di Margot Guryan, l’apparente leggerezza di chanteuses come Françoise Hardy o France Gall. Ma le influenze, in questo vortice sensoriale, si estendono anche alle sperimentazioni degli Stereolab, la psichedelia avveniristica dei United States of America, le composizioni atmosferiche di Bo Hansson, sfumate da un alone di kraut alla Neu!

Altra influenza costante nel disco è quella dei Broadcast, resi però meno spigolosi, addolciti da una patina velata; le loro sonorità indietroniche rimbombano in Necessary Distortions, un’alternanza di suoni amorfi e sintetici, dalle atmosfere fortemente retrofuturistiche. The Hidden Reverse spolvera ritmiche pseudo-garage, con dirottamenti in una psichedelia spettrale, quasi prog, alla Goblin. Moogskogen è una litania inquietante e suggestiva, sulla quale la voce galleggia diafana ; Something Unknown You Need To Know unisce immagini quotidiane ad impressioni oniriche: carillon rotti, bande funeree e zoppicanti, in un miraggio subacqueo, dalle stonature sgangherate.

Un flusso romantico, ombreggiato da un velo di quel tenero torpore che riveste anche i Velvet Underground di Sunday Morning e la loro musa, Nico. Musica delicata e lenitiva, dal sapore vanigliato.

Bianca Greco
Bianca Greco
Appassionata di musica, cinema ed arte. Strimpella qualche strumento, scribacchia frasi, scatta foto e pensa troppo.

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