venerdì, Novembre 14, 2025

Meredith Monk – In concerto @ Biennale Musica 2025: recensione

Straordinario concerto di Meredith Monk alla Biennale Musica 2025, con una proposta che ha incluso un'ampia ricognizione nella carriera dell'artista Newyorchese, dal 1975 fino a tempi più recenti. Accompagnata da due elementi del suo ensemble vocale, tra cui la voce storica di Allison Sniffin, ha restituito alla sala colma del Teatro Malibran di Venezia, una luminosità contagiosa. La recensione del concerto

Durante i sei decenni di sperimentazione e ridefinizione del ruolo della voce umana, Meredith Monk ha individuato in modo pioneristico un incredibile serbatoio di intuizioni ed estensioni possibili.
Dal canto ai suoni non verbalizzati, da tutte le elaborazioni della risonanza corporea alla scoperta di timbri non convenzionali, dall’utilizzo fluido del respiro alle articolazioni fonetiche che trascendono il linguaggio discorsivo, l’espansione di ciò che siamo abituati a definire entro la cornice vocale, include anche la capacità performativa di costruire paesaggi, in cui corpo e gestualità, nella relazione con lo spazio, agiscono e definiscono il senso tanto quanto il suono.
In anni più vicini a noi, l’artista newyorchese è tornata in un certo senso alle origini radicali della sua ricerca, con una serie di concerti insieme a quell’ensemble vocale che include anche due membri storici come Katie Geissinger e Allison Sniffin, declinando in forma più intima quell’equilibrio tra composizione e libertà della voce pura.

Il concerto allestito per la Biennale Musica 2025 ha seguito questa traiettoria e ha definito, proprio insieme a Geissinger e Sniffin, un dialogo timbrico inizialmente sottile dove l’eco, la risonanza e il respiro si sono manifestati come materia sonora quasi palpabile, per progredire verso una qualità materiale della voce attraverso l’impiego di suoni gutturali, articolazioni fisico-respiratorie, inflessioni che oscillano tra ciò che è umano e ciò che sfugge al controllo consueto della vocalità.
Proprio entro questa dimensione, Monk riesce ad evocare flussi rituali che non appartengono alla nostra esperienza quotidiana.

Geissinger e Sniffin oltre a fare corpo col suono di Monk, creano contrappunti, armonie sospese e tessiture polifoniche. Sniffin, in particolare, ha la capacità e il compito di costruire un supporto armonico con coloriture vocali che hanno la funzione di espandere lo spazio acustico. Su questo tappeto Monk avviluppa un progressivo campo di forze che dalla voce, inclusi i respiri e i silenzi, conduce in una dimensione post-umana.

La scaletta riassume in modo quasi antologico il percorso di Meredith Monk dal 1975 al 2018. L’incipit è affidato all’artista Newyorchese senza le sue performer, posizionata sulla parte sinistra del palco, irradiato a sua volta da una luce diffusa con due tastiere poste sullo sfondo e un violino appoggiato a quella più vicina a Monk.

Si crea uno spazio d’attesa dopo un approccio solare e confidenziale con il pubblico presente.

Wa-lie-oh è il primo brano, genoma fondamentale della ricerca solitaria degli esordi, e nata proprio in un periodo di isolamento nelle montagne del New Mexico. All’interno del ciclo di Songs From the Hill, esplora la voce come paesaggio naturale, una costante che chiuderà ellitticamente il concerto come in una monade. Se pensiamo che Monk ha ideato questo brano a partire da improvvisazioni eseguite all’aperto, sarà facile comprendere la varietà faunistica che è riuscita a riprodurre sul palco, privilegiando i fonemi ai lessemi. Ci sono quindi richiami Yodel, scarti microtonali, e la risonanza naturale tra voce e respiro. L’apertura ci introduce ritualmente nella dimensione di un ascolto profondo, dove la nota poetica di Monk diventa plastica: la voce come statuto pre-linguistico.

Click Song #1 è il secondo dei due brani introduttivi eseguiti in solitaria.

Scritto originariamente per trio vocale femminile, gioca sulle consonanti percussive e click linguo-palatali ispirati al patrimonio delle lingue africane Xhosa e Khaisan, ma come accade nell’universo sonoro e sincretico di Monk, trasposte in una dimensione minimalista occidentale. Nel contesto veneziano il brano diventa estensione fisica del primo, modulando il respiro nella sua versione ritmica.

La prima delle due performer a entrare è la Geissinger, con la quale Monk gioca sul canto sillabico, sollecitando cellule ritmiche iterative e vocalizzi che imitano eruzioni , soffi, pulsazioni.

Delle due tastiere, quella a sinistra è un piano elettrico che consente a Monk, da sola, poi con Geissinger e Sniffin, di lavorare su iterazioni minimali della struttura e segmenti vocalici astratti.

C’è una dimensione estatica e ludica che raggiunge l’apice con la selezione dal più recente Cellular Songs, ciclo concepito come riflessione sulla vita microscopica, dove la struttura cellulare, spiegata proprio da Monk prima dell’esecuzione, genera un’alternanza di duetti, combinazioni in trio, vocalità sussurrate.

Scared Song è uno dei momenti più alti, perché dalle origini del brano scritto nell’86 come riflessione sulla vulnerabilità e l’ansia collettiva negli anni dell’AIDS, Monk riesce ad estrarre una rappresentazione sonora della paura legata al nostro presente.

Qui la sola voce alterna melismi a vere e proprie grida inferiori.

Prayer 1, eseguita a quattro mani da Monk e Sniffin su tastiera simmetricamente divisa per produrre due suoni diversi, disvela una natura riflessiva, dove la preghiera è l’unico atto politico e di resistenza spendibile.

Ma il rituale raggiunge anche altri stati rispetto alla meditazione, come nella nota Panda Chant I, dove il crescendo delle sillabe Pa-Na, crea un canto ritmico che coinvolge un uditorio silenzioso ma partecipe, nella definizione di energie eterogenee, dove la danza imparata dai ritmi e dai suoni della natura, è occasione liberatoria.

E se Between Song è una riflessione sul lutto, la perdita e le possibilità di elaborare le sedimentazioni che lasciano, con la fragilità espressa anche grazie all’utilizzo del violino, Happy Woman è il suo contraltare luminoso, dove la continuità vitale, affidata di nuovo alla sola voce di Monk, cancella la morte con un’apertura polisemica alle molteplici identità del femminile.

La grande performer indossava uno dei suoi bellissimi costumi geometrici, amplificatori fondamentali del gesto vocale, ma anche modulatori, per il modo in cui limitano alcuni movimenti e ne agevolano altri. Una forma quasi triangolare con angoli e linee arrotondate si forma simmetricamente lungo i fianchi.
Il richiamo alla forza ctonia generatrice è evidente e si inserisce nella sua ricerca costante sulla forza tellurica femminile, dove rispetto alle raffigurazioni simboliche della divinità patriarcale, il disegno del vestito punta verso il basso, per definire un vero e proprio radicamento gravitazionale.

Se si assiste con attenzione all’esecuzione di Hips Dance, brano incluso nella scaletta Veneziana con una esplicita costruzione coreografica ispirata alla mitologia femminile polinesiana, si comprende bene quanto il vestito contribuisca a centrare il corpo nel bacino. Un baricentro che è anche ancoraggio visivo per chi guarda, capace così di visualizzare la forma stessa dell’onda respiratoria.

Il corpo, strumento anch’esso, diventa una cavità e le forme ammorbidite che Monk ha scelto rappresentano una differenziazione rispetto ai costumi più rigidi e geometrici degli anni settanta, ottanta e novanta. Questo perché il flusso, come possibilità di interconnessione con il tutto, è una dimensione centrale per tutto il concerto veneziano, e suggerisce ellitticamente l’idea di ciclo e rinascita, dove all’impatto teatrale Monk preferisce i micro-movimenti di una danza essenziale e più meditativa.

La luce è multidirezionale. Arriva dal palco e dal costume, ma anche nell’attitudine al gioco che Monk accoglie con grande ironia e restituisce ad un pubblico letteralmente stupefatto dall’epifania del mondo naturale, arcaico, futuribile e post-umano che emerge dalla sua performance.

Fonemi che sembrano lacerati, glissandi microtonali, improvvise vette del falsetto e profondità terrestri quasi fossero pietra. La voce, terribile e farsesca, innocente e pre-formale, è vero e proprio materiale plastico, con la combinazione in trio che consente la creazione mimetica di una fauna immaginaria, tra richiami riconoscibili e bestie fantastiche. La continuità meditativa viene interrotta dalle performer grazie a sfumature di colore che risvegliano l’attenzione e ci conducono in mezzo ad un tutto, dove la presenza umana è solo una traccia lontana.

Quando Geissinger e Sniffin entrano pienamente nel tessuto, la musica si organizza in piccole architetture polifoniche. Sono ostinati vocali, canoni che si sovrappongono con variazioni di tempo, micro-contrappunti ad intervalli strettissimi. La particolarità in questi casi è che la polifonia non tende verso l’arricchimento armonico tradizionale ma favorisce l’intreccio timbrico, con le voci tese a creare un vero e proprio muro di risonanza, dove le differenze di qualità timbrica sono più importanti delle relazioni tonali canoniche.

Sniffin in particolare alterna l’uso della voce al violino e brevi interventi di tastiera, fornendo coordinate timbriche che hanno il ruolo di amplificare le frequenze vocali. Si tratta infatti di un accompagnamento minimale e trasparente pensato per mettere in risalto le interazioni vocali, nella forma della drone music di qualità quasi ancestrale.

Monk introduce quindi elementi più ritmici, basati sulla ripetizione e l’impulso generato dagli stessi pattern; passaggi che si accompagnano ad una gestualità che ha lo scopo di rendere tangibile il lavoro collettivo dell’ensemble sul respiro.

Non c’è allora un climax vero e proprio, ma una stratificazione di elementi timbrici e dinamici, che spesso si accompagna ad un simmetrico e brusco svuotamento. Questo è uno scarto vero e proprio, la sensazione di un rilascio da tutta la tensione costruita, in cui la gestione del silenzio o della decadenza sonora, risuona con la nostra memoria, l’emotività, il senso che abbiamo assegnato durante il concerto, chi siamo, cosa vorremmo essere, o più tragicamente, cosa siamo diventati nella procrastinazione di una ricerca spirituale che sia in grado di non cedere ai ricatti dell’io.

Monk concederà anche un bis sollecitato dal calore assoluto della sala.

L’eco psicofisica che rimane, dopo questa straordinaria esperienza oltre-umana, perdura anche dopo il silenzio, tra i rumori della sala, nei suoni del concerto successivo, nella strada del ritorno, tra le luci e i colori della Venezia notturna.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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