Lunedì 20 ottobre, nella Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian, il pubblico si è raccolto attorno a Meredith Monk come a un’apparizione familiare, la stessa figura che, quasi mezzo secolo fa, aveva stregato la Biennale di Luca Ronconi con “Education of the Girl Child”.
Oggi, a ottantadue anni, la compositrice e performer americana riceve il Leone d’Oro alla carriera della Biennale Musica, consegnato dal presidente Pietrangelo Buttafuoco, alla presenza della direttrice Caterina Barbieri.
È un riconoscimento che è un vero e proprio ritorno alla fonte; la voce come corpo, la voce come luogo.
Poco prima della consegna, il fotografo Lorenzo Capellini le mostra uno scatto del 1975, tra i primi a immortalare la sua opera in Italia. «Prima di iniziare il mio discorso – dice con un sorriso – voglio raccontarvi una storia buffa». Nel 1976, durante le prove della sua opera “Quarry” ai Cantieri Navali dell’Arsenale, parte del soffitto di vetro crollò sul pubblico. L’anno successivo, durante la prova generale sotto la pioggia, Meredith era sdraiata al centro dello spazio, e Michelangelo Antonioni assisteva in platea. «Il mio direttore tecnico gridò che dovevamo fermarci, altrimenti sarei morta folgorata. Ricordo di aver pensato: “Giovane compositrice americana muore alla Biennale di Venezia”».
Il giorno dopo, nonostante tutto, la performance andò in scena: “Capellini scattò foto meravigliose, con il pubblico sotto gli ombrelli. Sono immagini magiche, che porto ancora con me”.
C’è in questo aneddoto un tratto che attraversa l’intera carriera di Monk, l’accettazione del rischio come parte integrante dell’atto artistico. La sua voce nasce sempre in bilico tra fragilità e trascendenza, come se il corpo stesso fosse l’antenna di una forza che passa attraverso di lei.
La pioggia e il vetro diventano allora elementi di una liturgia terrestre, un battesimo sonoro che prefigura la sua idea di performance come rito di sopravvivenza.Monk ricorda la sua prima apparizione veneziana nel 1975: «Eravamo degli sconosciuti. Dopo la prima, Luca Ronconi venne dietro le quinte con le lacrime agli occhi e ci chiese di restare un’altra settimana. Da allora ho sentito che il pubblico italiano comprendeva il mio linguaggio di voce, immagine e gesto».
Ringrazia Caterina Barbieri per “aver pensato a me come artista e collega”, e Andrea Lissoni, autore di un saggio nel catalogo del festival, per la sua “bellissima scrittura e il sostegno di tanti anni”. Poi si rivolge ai membri storici del Vocal Ensemble, a designer e filmmaker, ai collaboratori di ECM Records, “che hanno creduto nella mia musica e nella sua integrità, condividendo l’aspirazione a creare qualcosa senza tempo”.
Infine, visibilmente commossa saluta la nipote Karina Durland, “come una figlia, venuta da New York solo per essere qui”.
“Tutto è connesso”, ripete. Ed è la sintesi del suo modo di intendere la creazione artistica come rete vivente, una spirale di corrispondenze che tiene insieme persone, spazi e memoria.
Durante la conversazione con Andrea Lissoni, la regista rievoca l’esperienza di “Education of the Girl Child”, la performance del 1975 che inaugurò il suo legame con la Biennale. Allora non voleva “stare su un palco”, ma lavorare in spazi reali, vivi. I Cantieri Navali offrivano un luogo ruvido e poetico, dove la materia reagiva alla voce: “Durante la prima, mentre sei donne sedevano immobili a un tavolo, scorpioni si muovevano sul pavimento e pipistrelli volavano sopra di noi. Era meraviglioso: tutto contribuiva all’atmosfera del pezzo”.
L’opera, racconta, è un poema sulla forza femminile, “non un trattato politico ma un canto sulla potenza delle donne, sull’altra metà del genere umano e sulle parti maschili e femminili che convivono in ognuno di noi”. È un lavoro senza parole, costruito per immagini e suoni. Forse proprio per questo, dice Monk, “il pubblico italiano lo capì profondamente”.
Nella sua definizione, il teatro non verbale diventa un modo per oltrepassare la lingua, restituendo al gesto e alla voce il potere di evocare piuttosto che rappresentare.
Il dialogo si sposta poi su “Songs of Ascension Shrine”, l’installazione a tre schermi presentata alla Biennale analizzata in dettaglio su Indie-eye.
Monk racconta come l’opera nasca dal ciclo Songs of Ascension (2008), concepito con l’artista visiva Ann Hamilton per una torre a otto piani in Ohio: “Pensavo al modo in cui le diverse culture praticano la devozione nello spazio: nel buddhismo tibetano si cammina attorno, nel cristianesimo si sale, nelle tradizioni native si scende. Mi chiedevo come sarebbe cantare mentre si sale una torre, passo dopo passo”.
La torre progettata da Hamilton, spiega, ha due scale a elica che si incrociano. La performance si svolgeva mentre i cantanti salivano, circondati dal pubblico, in un movimento di ascesa e ritorno. Per la Biennale, Monk ha ricreato quell’esperienza immersiva: “Nell’installazione il suono si muove verticalmente, dai diffusori in alto e in basso, così che lo spettatore si senta dentro la torre, avvolto dal canto e dall’architettura”.
Nel suo racconto, la nozione di santuario assume un significato centrale:“Lavoro su questo concetto dagli anni Settanta. Un santuario è un luogo di memoria, di silenzio, dove ci si può fermare e lasciare che la musica ti attraversi. È un antidoto alla velocità, alla tossicità e all’aggressività del mondo. Oggi l’arte deve essere un atto di coraggio, un modo per mantenere vivo l’amore”.
Un gesto che, nell’allestimento veneziano, trova risonanza nella curatela di Barbieri, la mostra La stella dentro esplora infatti la “musica cosmica” come campo di forze tra suono, spazio e corpo.
Il tema della comunità ritorna quando Lissoni le chiede come costruisca un concerto. Monk risponde con una metafora domestica: “Mi piace pensare a un concerto come a un buon pasto: antipasto, piatto principale, dessert”.
Racconta il rapporto con le sue storiche collaboratrici Katie Geissinger e Allison Sniffin, “ognuna con una voce unica e magica”, e la rarità di un ensemble rimasto unito per decenni: “La profondità del nostro lavoro nasce da questo. Ho capito che le idee, le immagini, i costumi, sono solo l’armatura: il vero pezzo sono le persone”.
Il riferimento al progetto Cellular Songs diventa occasione per una riflessione etica: “In scena siamo un prototipo del possibile comportamento umano. Ci ascoltiamo, ci sosteniamo, ci accorgiamo se qualcuno è in difficoltà. È una forma di empatia musicale”.
È un’idea di arte come ecologia relazionale, che risuona con il principio curatoriale della Biennale: la voce come organismo vivente, materia condivisa.
Quando Lissoni le chiede quanto tempo impieghi a comporre, Monk risponde: “Sono lenta. Fare arte è una disciplina spirituale”.
La frase sembra racchiudere l’essenza del suo metodo, costituito dalla lentezza come forma di ascolto, la ripetizione come meditazione, la voce come esercizio di presenza.
Nel descrivere la collaborazione con Ann Hamilton, racconta ironicamente i loro scontri (“come due capre che si urtano con le corna”), ma ne riconosce la funzione: “Una buona collaborazione nasce dal lasciare andare il controllo, dal rischio di rinunciare a ciò che pensi di essere per far nascere qualcosa di nuovo”.
La pratica artistica diventa così un percorso di decentramento dell’io, una forma di conoscenza che si oppone all’idea di arte come produzione.
Verso la fine, Monk affronta con serenità il tema della morte: “Ho 82 anni, penso spesso alla morte, ma anche alla rinascita. Penso alla fenice, a come attraversare il fuoco del nostro tempo e uscire con qualcosa di nuovo. Non so ancora come farlo, ma è questo che sto cercando”.
In queste parole, più che in qualsiasi dichiarazione teorica, si rivela la radice etica del suo lavoro dove la voce è testimone del tempo, come materia che nasce, si consuma e rinasce.
L’immagine della fenice si lega alla spirale di “Songs of Ascension”, al movimento ascendente che attraversa il suo intero percorso, dal teatro alla musica, dal gesto al respiro.
Due giorni prima della cerimonia, Meredith Monk si era esibita al Teatro Malibran con le sue due compagne di lunga data, in un evento che è stato analizzato su Indie-eye .
Quel concerto “trasforma il tempo in respiro condiviso, alternando il rigore del gesto e la purezza infantile della voce”.
In un momento in cui la musica contemporanea spesso abdica alla complessità, Monk restituisce il senso originario del suono come ascolto del mondo, il canto come necessità biologica.
Dal 1975 al 2025, il percorso di Monk e della Biennale si specchia in un dialogo costante tra ricerca e rischio.
La motivazione ufficiale del Leone d’Oro, letta da Barbieri, ne sottolinea la “multidimensionalità che dissolve i confini tra musica, teatro, danza e cinema”.
Ma a Venezia, più che altrove, questa complessità si è manifestata come un respiro comune tra artista e città.
L’acqua, la voce, l’eco, sono le tre sostanze di questo legame. In “Songs of Ascension Shrine” l’acqua riflette la luce dei tre schermi; nel concerto, la voce diventa ondeggiamento; nella cerimonia, le parole si sciolgono in commozione.
“Everything connects”, ha detto più volte Monk.
E in effetti, tutto torna a connettersi, mentre Venezia diventa un santuario della memoria vivente, una stanza in cui il tempo ascolta se stesso. E Meredith Monk ne è la voce.






