La serata proposta dalla Biennale Musica con Mia Koden e Carl Craig nel “duello” di un doppio Dj set della durata di 120 minuti ciascuno, si è configurata come un incontro generazionale capace di intrecciare la suggestioni della techno originaria con le nuove traiettorie della bass culture contemporanea. Una giustapposizione che ha messo in luce stratificazioni già presenti nelle pratiche estese del clubbing.
Da un lato l’eredità techno di Detroit, con la propensione all’architettura sonora e al futurismo astratto, dall’altro la linea bass-driven globale che oggi reinterpreta discontinuità ritmiche e suggestioni diasporiche come motore di sperimentazione.
Craig è figura storica, ancora vitale nel panorama techno mondiale; le sue esplorazioni modulari, fino alle collaborazioni sinfoniche, se pensiamo al progetto Versus, ma anche la capacità di ibridarsi con jazz, glitch e ambient, lo hanno reso un punto di riferimento imprescindibile.
Negli ultimi anni ha alternato set da club a progetti performativi che sfumano i confini della dancefloor con paesaggi sonori esperienziali.
Mia Koden, nome d’arte di Sancha Ndeko, è emersa dalla scena britannica con radici africane, formatasi dentro la cultura dei sound system, reggae, dubstep, drum & bass e coltivando un’idea di club music che è tanto attiva nelle basse frequenze quanto liquida nei rapporti ritmici.
Con il suo progetto solista ha prodotto EP e mix che si muovono tra dub e bass culture arricchite da elementi glitch e forme ritmiche imprevedibili.
L’evento è riuscito a far dialogare due stili con radici diverse, costruendo un continuum di energie, dove differenze e complementarità attivavano nel rituale condiviso, dinamiche e densità ritmiche spesso sovrapponibili.
Lo scenario è quello di Forte Marghera, enorme incubatore potenziale di eventi a metà tra gentrificazione degli spazi e un approccio essenziale, ancora istintivo.
Invaso dalla densità dei fumi, tagliati con un’illuminotecnica morbida, ma allo stesso tempo ipercinetica per quanto riguarda il set di Koden, lascia spazio alla chirurgia dei laser che si fanno strada nella coltre opaca durante il set di Craig.
La programmazione comincia con Mia Koden, che apre il palco con una tensione “bassa”, concentrandosi prima sulle frequenze sub e sugli infrasuoni dub. Nel primo quarto d’ora, senza far esplodere subito il ritmo, gioca con delay, vibrazioni lunghe e risposte ritmiche rarefatte, preparando il corpo all’immersione frenetica e potentemente solare del suo set.
Contrariamente quindi alle aperture più “dub-driven” e dilatate che caratterizzano molti dei suoi set recenti, la performance veneziana di Mia Koden alla Biennale si è subito orientata verso un ritmo vivo, con un uso deciso della drum & bass come architettura portante. Il puzzle ritmico conteneva numerosi frammenti campionati di derivazione brasiliana, lounge, caraibica, fino all’esplosione di un frammento della Yma Sumac più soul arrangiata da Baxter, dove la leva atmosferica era già caldissima.
Questo scarto tra futuribile e radici ha caratterizzato tutto il set, fino alla sorprendente chiusura che ha lasciato spazio quasi per intero a People Make the world go round, soul incendiario dei The Stylistics, quasi una dichiarazione di intenti a posteriori che ha creato un contrasto affascinante con l’ingresso più cupo di Craig. Il suo incipit, affidato allo spoken word che anticipa Welcome to the pleasure dome dei Frankie Goes To Hollywood, con la successiva proposta integrale del brano, allude all’iniziazione di un rituale, che riconnette all’edonismo sulfureo e dionisiaco dell’esperienza dance. Una vertigine fortemente radicata tra la seconda metà degli anni ottanta e gli anni novanta per quanto riguarda il riferimento all’estetica club. Rispetto al dancefloor trans-atlantico di Koden, intrecciato nel continuum vibrante tra Londra, Bahia e altre sonorità apolidi, Craig si è rivelato più geometrico, forse meno inventivo, ma con la consueta cifra capace di far convivere pulsazione meccanica, frammentazione sonora e un senso di respiro emotivo. A metà set ha lavorato anche sulla decompressione, sui rallentamenti e sulle pause, elaborando una parte minimal più marcata per poi ricominciare un percorso di ricostruzione verso territori più ballabili. La densità si fa verticale: basso pieno, beat netto, ma filtri che si aprono e chiudono, glitch discreti, contrappunti percussivi insoliti.
Craig accelera il ritmo in chiusura o reinventa il pattern guida con variazioni ritmiche sorprendenti, alternando momenti afro-futuristi con scarti più post-techno, comprimendo tensione e rilascio.
Ecco che il rituale diventa intertemporale, con le differenze generazionali e stilistiche che convergono in un’unica, potente visione sonora.






