venerdì, Aprile 19, 2024

Zomby – Dedication (4AD, 2011)

La cultura del ballo può sposarsi a tormenti esistenziali? Circa trent’anni fa questa domanda non avrebbe faticato a trovare un’immediata risposta affermativa, quando, giusto a titolo di esempio, Ian Curtis sfogava le sue ossessioni nel suo tarantolato dimenarsi sul palco. Oggi, epoca in cui ad essere osannato non è più l’artista ma il mezzo (dj o producer che sia) con cui si fa giungere la musica all’ascoltatore, il discorso sembra essere più o meno lo stesso e allora, spingendosi un gradino oltre, la domanda da porsi sembra essere se effettivamente la musica può, con tali premesse, rispondere al soddisfacimento del desiderio dell’ascoltatore, sia esso di catarsi o di definitiva discesa agli inferi. Con un nome come Zomby la presa evocativa sembrerebbe già assicurata. Ma se in generale, almeno per chi scrive, l’elettronica, proprio per l’assenza di “fisicità” dei mezzi adottati parte inevitabilmente svantaggiata rispetto alla musica suonata in senso più stretto (figuriamoci in un genere di pura emotività quale la new wave), nel caso del producer londinese tali limiti sono evidenziati in modo decisamente più netto. Il progetto in sé e per sé non manca di fascino, nel coniugare minimali ritmiche dubstep ad armonie oniriche, intrise di desolazione e rassegnazione. E l’avvio con l’incalzare della progressione ritmica di Natalia’s Song, che saggiamente tiene sul filo l’ascoltatore senza mai esplodere in cassa dritta, dà una buona impressione dell’atmosfera generale che permea tutto il full-lenght. Così come l’inciso di synth di Alothea (cinque note luminescenti attorno a cui gravitano frammentazioni di groove appena accennate) è dotato del giusto mix di pathos e coinvolgimento ritmico. Il problema è che già nei primi dieci minuti il disco sembra esaurire le carte da giocare e sbaglia strategia nel cercare sempre l’accumulo di elementi e tessiture sonore, risultando di volta in volta o troppo enfatico (come la successiva Black Orchid) o troppo freddo (Riding With Death, nella quale fanno capolino i cliché da club maggiormente riconoscibili). Proprio in questo, Dedication esce inevitabilmente sconfitto da un progetto affine ma di ben altro peso come quello del conclamato talentuoso James Blake. Laddove quest’ultimo lavora di sottrazione, costringendo l’orecchio a soffermarsi su pochi, ma densissimi elementi (su tutti, una voce di un’intensità straziante), Zomby tenta sempre la giocata stupefacente, cercando di sovrapporre almeno due ritmi e tre, quando non quattro, contrappunti armonici e suoni sintetici differenti fra loro, con il risultato di rendere l’encefalogramma piatto più di una volta (e certo non aiuta il fatto che i brani siano numerosi e di durata parecchio contenuta, senza possibilità di focalizzarsi seriamente su un’idea musicale e di svilupparla compiutamente). Non a caso, l’inserimento di una voce “autentica”, quella di Panda Bear in Things Fall Apart, si rivela una soluzione azzeccata, ma gettata lì quasi per onor di firma, così come nel vuoto cadono anche alcuni richiami a certe produzioni di Aphex Twin (la cinematografica Florence, sul cui versante, però, hanno fatto di meglio addirittura i Radiohead di Amnesiac) e Autechre. A ciò si affianca però il fatto che costoro, dei rispettivi generi, furono alfieri ed innovatori e non semplici adepti. Dall’altro lato, certi sprazzi di luce si intravedono nella quasi “onomatopeica” Digital Rain, che, seppur ripetitiva, evoca gocce di pioggia che rallentano via via proprio come il cessare di un acquazzone di fine estate e nella melodrammatica Haunted, in cui due pianoforti e un tappeto di archi si rispondono a vicenda. Ma il tutto viene chiuso dalla greve Haunted e dalla tamarra Mozaik (bruscamente mozzata sul finale), un accostamento strampalato che non fa altro che aumentare i dubbi sulla coerenza stilistica del progetto e che fa sorgere il dubbio che in qualche modo si sia voluto tappare un vuoto pneumatico di idee sorto in fase di post produzione. In sintesi, è un disco riuscito a metà, poco divertente per un venerdì sera, sinceramente troppo noioso persino per una domenica pomeriggio e decisamente troppo algido per le brutali cadute nella quotidianità di un lunedì mattina.

Francesco D'Elia
Francesco D'Elia
Francesco D'Elia nasce a Firenze nel 1982. Cresce a pane e violino, si lancia negli studi compositivi e scopre che esiste anche altra musica. Difficile separarsene, tant'è che si mette a suonare pure lui.

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