venerdì, Aprile 19, 2024

Gregory and the Hawk – Leche ( Fat Cat, 2010)

Meredith Godreau, in arte Gregory and the Hawk, è giunta al suo terzo album in studio, lei che ha raggiunto la notorietà con due Ep azzeccatissimi, Boats and Birds del 2005 e l’omonimo dell’anno prima, si rilancia nella discografia proponendo il secondo lavoro per la Fat Cat. Leche è un dolcissimo ritrovo per le sperimentazioni in campo indie folk. C’è spazio per ogni guizzo strumentale passando dalla chitarra al piano, ai fiati fino ai violini. La voce invece è uno scenario a parte, una delicatezza immaginabile e struggente. Lo sono di riflesso anche i testi dove, a detta della stessa artista, ci si ritrova immersi in viaggi tendenzialmente introspettivi e più oscuri, cambiando linea compositiva se si pensa al suo precedente album, Moenie and Kitchi, dove emergeva un lato adolescenziale che sembrava non voler finire mai. Così non è stato. Fortunatamente c’è stata un evoluzione, o meglio una crescita artistica e personale, forse una presa di coscienza dei propri mezzi. In questo capitolo si parte profondamente con un brano tipico del female folk, For the best, intona perfettamente le sensazioni eteree che propinano le atmosfere acustiche. Bisogna scontrarsi con Over and Over per attingere a quelle stoccate ricercate e innovative che la Godreau ha mostrato di aver in serbo. Il piano elettrico in questo brano si incastra con la ritmica suadente delle chitarre che trovano aria e spazio fra le note che intona l’artista originaria del Massachusetts. Non è difficile trovare una sottile attinenza con Joanna Newsom. Più statica ed incline al genere, A Century is All We Need, che si pone come la più serrata a quello spicchio intimo che Meredith conserva per accostarsi a coloro che l’hanno ispirata nel suo commiato artistico, Pj Harvey e Liz Phair. Un pezzo invece che cattura subito l’attenzione è sicuramente Puller return che con il suo riff bluesggiante e un melodico fischiato trascina in una danza, quasi tribale, con quei cori finali che ricordano molto le cerimonie dei Nativi d’America. Non a caso l’ispirazione di questo disco sono stati i viaggi, (non solo introspettivi come ho già scritto) che hanno suggerito le atmosfere e le sensazioni che trasudano da questi dodici brani. L’ending track , Dream Machine, sembra uscire direttamente da un album di Isobel Cambell, dove il pianoforte è l’unico mezzo di trasporto che separa Gregory and the Hawk da chi l’ascolta. Un disco morbido ed interessante al quale, forse, manca un po’ di spinta necessaria per insediarsi concretamente nella memoria e nei palati di tutti noi.

 

Paolo Pavone
Paolo Pavone
Paolo Pavone Vive, nasce, e cresce fra le risaie del nord italia, salvo una lunga parentesi nel regno unito. Torna per occuparsi, di giorno dell' arte e del design e di notte di musica e scrittura.

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