sabato, Ottobre 5, 2024

Josephine Foster – Blood Rushing: la recensione

Il canone di Josephine Foster continua a crescere e c’è davvero di che scartabellare per chi si sia perso qualche capitolo strada facendo. Prima dei dischi gemelli Anda Jaleo e Perlas, in cui a fianco del marito Victor Herrero Josephine appuntava, lontano da vuoti accademismi, le sue ricerche sulla cultura spagnola, c’erano le parole di Emily Dickinson, interpretate tra sussurri e usignoli nel meraviglioso Graphic As A Star (2009). Josephine portò in tour il disco senza sottrarre niente all’intimismo della sua concezione originale, rinverdendo la sua fama di artista fuori dal tempo, completamente libera di travalicare qualsivoglia confini geografici, linguistici e artistici, passando da un’etichetta indipendente all’altra.

Blood Rushing è a sua volta un dialogo con un’altra donna, questa volta un personaggio finzionale, Blushing, tramite sia simbolico che sanguigno per un’ideale ricongiungimento con la sua terra natia, il Colorado. Ma non occorrono grandi dietrologie per introdurre questo nuovo capitolo della sua discografia, forse piú dei precedenti immediato, godibile e sincero nel suo tentativo di raffigurare una pletora di sentimenti personali, umani e condivisi, come sempre nell’immaginario dell’artista, con la natura. Il dipinto in copertina, della stessa Josephine, allude al getto vitale del sangue, trait d’union tra le stelle e la terra o, come ci suggerisce il testo di O Stars, splendente e rinvigorente come il vino.

Quasi scomparsa l’impenetrabile austerità di certi vecchi esperimenti di interpretazione sacrale, il disco nel complesso torna ad ambientazioni folk-rock e blues che cullano l’ascoltatore e ammaliano grazie alla sempreverde duttilità della voce di Josephine, sottratta all’opera e prestata all’arte del trasformismo. Victor la segue e le chitarre spagnole non scompaiono, ma musicalmente le vere novità sono i reiterati cori femminili, per la prima volta qui preponderanti assieme ai violini di Paz Lenchatin (The Entrance Band) e Heather Trost, l’altra metà degli A Hawk and A Hacksaw. Responsabile delle percussioni è invece il Fly Golden Eagle Ben Trimble. Tra inni al sole (Sacred Is The Star), solenni arrampicate in terra natia (Panorama Wide), dolci bozzetti descrittivi (Blood Rushing) e dialoghi intergenerazionali (Underwater Daughter) il disco si staglia su atmosphere rilassate, le meno freak e le piú riflessive che Josephine abbia mai dispiegato.

Non più matura, giacché matura e meticolosamente concepita lo é sempre stata, ma forse più accessibile, risplende in Blood Rushing una quiddità folk che coinvolge e induce al riascolto. (Child of God, un incantevole blues spolverato di chitarre psych). E come ci si aspetta da una fuoriclasse ci si imbatte anche nell’imprevisto, nella disarmonia, valvola di sfogo di una creatività che proprio non sa che farsene del manierismo. Geyser torna alla psichedelia infuocata degli esperimenti con i Supposed (All The Leaves Are Gone, Locust, 2004), proponendosi come un personalissimo inno alla fertilità: Fertile/I’m so fertile/I’d conceive of anything. E trattandosi di Josephine Foster, non si tratta di sola licenza poetica.

Giuseppe Zevolli
Giuseppe Zevolli
Nato a Bergamo, Giuseppe si trasferisce a Roma, dove inizia a scrivere di musica per Indie-Eye. Vive a Londra dove si divide tra giornalismo ed accademia.

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