venerdì, Aprile 19, 2024

Josephine Foster: l’intervista, molte vite in una sola

Soundcheck a porte blindate. Un paio di gradi sopra lo zero. In una Domenica sera in cui tutto tace mi dirigo verso la deliziosa cornice di Wharf Chambers, un’ex fabbrica d’epoca Vittoriana, e passo dopo passo mi avvicino a una virulenta esecuzione di Geyser, uno dei pezzi di punta dell’ultimo Blood Rushing (Fire Records). La band di Josephine Foster, composta dal marito Victor Herrero, Paz Lenchantin (A Perfect Circle, Zwan) e Alex Nielson (Richard Youngs, Jandek) sa come tuonare. Josephine, che lasciò in gioventù l’opera, come ci racconta, in favore della sperimentazione, dal 2000 ad oggi ha attraversato appalachian folk, rock psichedelico, rumorismo, flamenco, opera e “art songs”, per citare solo alcuni esempi. Di fatto non sa proprio che farsene di barriere e confini. La musica di Foster, ormai stabile in quel di Cádiz, fluttua tra il vecchio e il nuovo mondo, parla inglese, francese, tedesco e spagnolo e si muove avanti e indietro nel tempo alla ricerca di un’affascinante… atemporalità. Blood Rushing è un’ottima sintesi delle mille vite di Josephine e dal vivo i nuovi brani brillano di luce propria, accanto a qualche recupero da This Coming Gladness e dallo psichedelico All The Leaves Are Gone. Josephine dirige il quartetto all’acustica e all’armonica; Victor si riversa sull’elettrica tra virtuosismi e improvvisazioni; Paz porta i cori femminili per la prima volta nei live di Josephine e si divide tra basso e violino. Da sole, eseguono la meravigliosa Underwater Daughter. Alex, ben addestrato ai prodigi del minimalismo più sperimentale, accompagna alle percussioni con inquietanti, imprevedibili rintocchi. I nostri si esibiscono in una sorta di soffitta ricoperta di tappeti, in semioscurità. Verso la metà del set Josephine chiede di abbassare ulteriormente le luci e di tanto in tanto sceglie di sbarazzarsi dal microfono. Il pubblico, ammaliato dalla sua voce poderosa, la coglie di sorpresa con una lunga standing ovation, cui Josephine risponde con timidi sorrisi e un lieve imbarazzo.
Mentre aspetto di entrare nel suo camerino scopro che il concerto verrà filmato. Il regista fallisce nel mettermi a mio agio: “Josephine non ama fare interviste”. E un po’ trovo conferma di ciò nei primi minuti, quando chiude gli occhi, si prende lunghe pause e si perde in sospiri. Mi offre del vino rosso e, neanche a farlo apposta, scopre dall’etichetta che è di provenienza spagnola. “Amo il vino italiano, ma da quando vivo in Spagna ne ho scoperti di gran buoni”. Pian piano si scioglie e la ritrovo appassionata nel parlare dell’opera e i suoi ruoli, di morte, poesia e di un personalissimo progetto in fieri di wagneriana “opera totale”. “Art is our chief means of breaking bread with the dead”, scrisse W. H. Auden: è nel suo guardare perennemente indietro nel tempo che l’arte di Josephine avanza e si libera di confini e barriere.

 

Come procede questo tour iniziato… in quel di Catania?

Il tour sta andando molto molto bene. Suonare a Catania è stata un’esperienza straordinaria. [ N.d.r. il  17 Settembre Josephine Foster ha presentato in anteprima Blood Rushing nella cornice del Teatro Greco Romano di Catania]  Già solo trovarsi in un teatro romano in una serata di Settembre con l’acqua che ti circonda. A un certo punto avevo la sensazione  di sprofondare nell’acqua mentre suonavo.

Blood Rushing è nato in modo particolare, a cavallo tra Europa e America. Come è stato riconfigurare nella tua terra d’origine, il Colorado, i brani concepiti in Europa?

Blood Rushing è stato concepito in più luoghi. Alcune canzoni sono state scritte negli States, altre in Spagna. Registrare in Colorado mi è parsa la direzione migliore da prendere. È stato un lungo viaggio per noi. Il nostro ingegnere del suono [Andrija Tokic] ci ha raggiunto in macchina da Nashville. Laborioso, direi. La registrazione in sé invece è stata piuttosto semplice, è avvenuta di base in una piccola stanza.

All’interno di un’università, se non sbaglio.

Non proprio. Abbiamo registrato in un’abitazione privata all’interno della quale c’è un enorme spazio dedicato alla danza contemporanea, sperimentale e alla meditazione joga. Quegli spazi sono effettivamente occupati da studenti della Naropa University, una scuola buddista.

In questo disco per la prima volta incontriamo un personaggio di finzione, Blushing. Come è nata l’idea di una scrittura “a quattro mani”?

Quando ai tempi decisi di lasciare l’opera mi sentivo intrappolata in una serie di personaggi o ruoli e tutto ciò per me era frustrante. Impersonare certi ruoli nell’opera significa incarnarli non solo esteriormente, ma con la voce, in termini di registro, espressione ed estensione. Ti guardi allo specchio, pensi al futuro e non vedi altro che questi personaggi tornare all’infinito. Così lasciai l’opera e decisi di cantare finalmente dal mio punto di vista per un po’. Tuttavia ho sempre sentito di avere tante, tantissime voci diverse dentro la mia testa, non chiaramente organizzate, un po’ alla rinfusa. Ed ero persino imbarazzata all’idea di farle uscire dalla mia immaginazione…

Imbarazzo?

[Ride] Credo di aver per un po’ attaccato dello stigma al mondo del teatro, considerandolo forse un po’ artificiale, ma non è solo questo. Per esempio la canzone Blood Rushing è cantata in maniera totalmente spontanea ed è una sorta di riaffermazione del mio passato e del mio attaccamento per l’opera. Ho capito che non potevo abitare solo la mia esperienza personale. Non posso mai essere una cosa sola. È come avere tante vite in una sola. È molto liberatorio.

Anche la danza ha ispirato questo nuovo progetto. Ci puoi raccontare in che modo?

Blushing è solo uno di tanti personaggi cui sto lavorando. Con questo disco ho voluto condividere la sua storia, che è solo una di tante altre. Una narrazione dentro una narrazione più ampia che le contiene tutte quante. Tutti i brani che ho scritto sinora nella mia testa sono danzati, li visualizzo danzati. Danza classica. Blood Rusing è senza dubbio un pas des deux. La mia speranza è di riuscire un giorno a vedere i miei brani danzati per davvero, reincarnati, filtrati attraverso lo spettro della danza.

La tua voce evoca spesso un senso di atemporalità. Penso ad alcune registrazioni da Was Is It That Ever Was? o all’aura fin de siècle di pezzi come Brillante Estrella. Quanto è importante ricercare un “senso del passato” nella tua musica?

Ricreare un senso del passato per me ha molto a che vedere con la bellezza del canto. Senza dubbio nasciamo con un corpo e con esso una voce. Quest’ultima non è completamente indipendente, libera, perché determinata da alcuni limiti fisici. Al contempo la voce riesce sempre a rifuggire il corpo. Esegui una nota e questa ti sfugge, ti oltrepassa e le sue vibrazioni raggiungono i corpi di altre persone. La bellezza del canto consiste nel coltivare entro questa dinamica quello che vuoi esprimere. Per me questa bellezza è esattamente senza tempo. Il tuo corpo è come un recettore che cerca di sintonizzarsi su una frequenza e riceve risposte da altri corpi. Sono interessata a ricreare atemporalità nella mia musica. La vera bellezza si trova lì, nello sforzo di sfiorare il corpo e l’anima degli altri attraverso l’arte… non so cosa significhi esattamente, ma mi hai capito, vero?

Assolutamente.

[Ride] Ed è una cosa che accade nella vera arte in generale. È una qualità che ricerco in tutte le arti e che trovo per esempio nella poesia di William Blake.

Il tuo sforzo di unire musica e letteratura è ben noto. Quando uscì Graphic As A Star [in cui Josephine interpreta poesie di Emily Dickinson] l’operazione fu considerata coraggiosa e controcorrente. In realtà sappiamo bene che musica e poesia sono sorelle dai tempi degli aedi. C’è qualche opera che hai intenzione di musicare in futuro?

Non saprei, ma penso che continuerò a farlo a lungo! Credo che unire musica e letteratura sia per me quello che qualcuno potrebbe definire un hobby. Se un poema mi colpisce inizio a cantarlo, non c’è storia. Ovviamente non ho registrato tutto, ma ho interpretato una pletora di testi diversi. Credo sia affascinante. Sono le collaborazioni intergenerazionali ad interessarmi. Quando un artista muore ci consegna la possibilità di interagire pienamente con la sua arte, di accedervi direttamente. Trovo estremamente affascinante accedere alle opere di dominio pubblico. Le poesie di Emily Dickinson sono… di tutti. In fin dei conti ci sono solo un centinaio d’anni che non possiamo trasformare liberamente, ma c’è tutto un mondo di possibilità se si guarda ancora più indietro. Opere che possiamo interpretare, danzare, cantare liberamente. Quella libertà ci concede un accesso più intimo, a mio modo di vedere. Schubert è di tutti, capisci?

Lieder in attesa di essere reinterpretati.

Esatto. Vedi per me i Lieder sono un modo assolutamente naturale di accedere alla poesia attraverso la musica, per questo non vedo niente di controcorrente in quello che faccio. Direi che ho scoperto la maggior parte delle poesie che amo attraverso le “canzoni d’arte”.

Vorrei recuperare un attimo ciò che prima dicevi a proposito dell’opera. Ho incontrato di recente un saggio piuttosto influente della filosofa francese Catherine Clément, L’Opéra ou la Défaite des femmes, in cui sostiene che nell’opera si assiste a una disfatta dei personaggi femminili. Sostanzialmente le donne o vengono ammazzate o portate al suicidio, alla follia e finiscono per perdere la propria identità. Il saggio è senza dubbio datato e molti studiosi hanno fatto notare ad esempio come nell’opera di stampo comico le cose vadano un po’ meglio. Che ne pensi? Cosa hai cercato di aggiungere ad alcuni personaggi che hai drasticamente reinterpretato? Penso ad esempio alle tue Die Schwestern [Brahms/Mörike], più minacciose che giulive.

[Ride] Oh! Die Schwestern per me è una composizione molto inquietante, direi anche armonicamente. C’è molta oscurità nel mondo in cui le due sorelle interagiscono. C’è una qualità bizzarra nel loro modo di cantare assieme che mi sconvolse quando la imparai per la prima volta. Avevo sedici anni. Mi piace che ci sia inquietudine nonostante i temi siano molto domestici. Non ho niente contro i temi domestici, credo siano parti fondamentali della vita. Nell’opera c’è un attesa costante, l’attesa di esprimere un qualcosa che è stato fissato in maniera molto specifica. Anche se a quest’attesa ho preferito sperimentare, continuo a pensare che quello che faccio è opera in qualche modo. Voglio ancora essere una cantante d’opera. E ci sono testi molto diversi, che si discostano dai grandi temi suicidi dell’opera dell’Ottocento. Adoro l’opera francese ad esempio, e i temi magici.

O Ma Lyre Immortelle [dalla Sapho di Charles Gounod]. So che la interpeti una tantum.

Oh! Quella sì che è un’aria suicida. Non mi precludo nulla, per questo scelgo anche il ruolo della suicida di tanto in tanto. Il punto è: non esclusivamente. Ad ogni modo, credo che sia uno splendido modo di suicidarsi quello di O Ma Lyre: buttarsi nel mare, suonare la lira. [Ride] Ma c’è così tanto altro nell’opera. Il cosiddetto pants role vede le interpreti apparire vestite da uomini… insomma, davvero difficile generalizzare. Credo che alla fin fine sia un discorso di… complesse contraddizioni. Al momento voglio scrivere la mia opera.

In questo tour hai recuperato alcuni brani del tuo disco con i Supposed [All The Leaves Are Gone (Locust, 2004)]. Mi colpisce molto la potenza oscura di Deathknell, uno dei tuoi brani più pessimisti, specie se paragonato ai nuovi di Blood Rushing. L’altra sera a Manchester Deathnkell ha a dir poco colto di sorpresa il pubblico.

[Ride] Per me Deathknell è un brano divertente, mi viene da ridere ogni volta che lo interpreto dal vivo, perché è oltraggioso e sciocco al contempo. È certamente pessimista, ma è anche realistico. L’ho scritto nel mezzo di un temporale, da qualche parte nell’Indiana. Ero tristemente colpita dall’indifferenza delle persone attorno a me nei confronti del prodigio del temporale, un temporale spettacolare. Nella canzone cerco di catturare il potere misterioso, talvolta mortale della natura e al contempo la nostra capacità di dimenticarcene, distratti come siamo dalle piccolezze della vita quotidiana. Pensavo alla morte e mi sconvolgeva non ricordare il nome della mia bisnonna. C’è un verso della canzone che esprime questo disappunto [“I had a mother, mother had a mother/No one remembers her name”]. Scioccata, pensai: “Basta un attimo e veniamo sciacquati via dal tempo”.

Assurdo che l’altro brano potente e ribelle del set sia Geyser

Non ci avevo pensato! Geyser è la comunione assoluta con gli elementi. Cattura una sensazione stupenda. Ah, quel giorno stavo proprio una meraviglia!

 

Josephine Foster su Fire Records

 

 

 

Giuseppe Zevolli
Giuseppe Zevolli
Nato a Bergamo, Giuseppe si trasferisce a Roma, dove inizia a scrivere di musica per Indie-Eye. Vive a Londra dove si divide tra giornalismo ed accademia.

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