sabato, Ottobre 12, 2024

4fioriperzoe, l’intervista

Matteo Romagnoli è il cantante ed autore dei testi dei 4fioriperzoe, band bolognese che propone un’interessante evoluzione del concetto di cantautorato e di cui abbiamo parlato da questa parte su indie-eye.it. Abbiamo parlato con Matteo prima del suo concerto, non accompagnato dalla band, al +tost Che Niente Festival. Una lunga chiacchierata sulla sua concezione della musica, oltre che sullo stato della discografia oggi. Le Foto sono di Francesca Pontiggia, sempre di Francesca il Foto-set del concerto di Matteo al “+ Tost che niente”, si vede da questa parte.

13 cose che dovrei dirti” è il vostro secondo disco, che segue dopo ben 5 anni il vostro esordio “Normalmente scompaiono”. Perché una così lunga attesa? Cosa avete fatto in questi anni?

Non è stata una vera e propria attesa, nel senso che abbiamo fatto molte cose in questo lasso di tempo. C’è stato un cambio di etichetta, con anche contratti da rispettare. Da un lato c’è stata un’attesa forzata per questo motivo, dall’altro lato abbiamo lavorato molto per il cinema, per il teatro e per documentari. Anche per questo il tempo è come se fosse volato. C’è poi stato un cambio di formazione con l’ingresso di Nicola Manzan come membro fisso, mentre prima era solo un ospite. L’entrata di Nicola ha fatto sì che ci fosse un disco praticamente pronto, che abbiamo distrutto per farne un altro. Si può dire che c’è un elemento mancante nella nostra discografia che non vedrà mai la luce. Nello stesso tempo tutti noi abbiamo avuto diverse esperienze; Francesco Brini, il batterista, che è stato con me fondatore del gruppo, ha lavorato molto con Swayzak, un gruppo inglese di cui tutt’ora fa parte; ha fatto 2 dischi con loro, che sono andati molto bene e l’hanno portato in giro per il mondo. In realtà è quindi stato un periodo molto vivo, in cui abbiamo fatto anche un disco, che uscirà a settembre-ottobre, intitolato “Musiche per film mai visti”, che andrà a coprire tutta la parte di lavoro su film, teatro etc. più altro, cose fatte per estemporanee e finora irreperibili. In pratica si può dire che in tutti questi anni abbiamo lavorato molto, senza però farlo sapere a nessuno. Adesso però per rispondere a questa lunga pausa discografica abbiamo intenzione nel 2010 di fare già un altro disco di canzoni. In questi anni si è ingigantita la crisi del mercato discografico, ci troviamo in un momento in cui l’etichetta madre con cui abbiamo fatto il primo disco, la Mescal, non esiste più; anche per questo siamo stati co-fondatori di questa etichetta che si chiama Garrincha Dischi, che in totale autogestione ci permette anche di fare un disco all’anno, cosa che non potevamo fare nel 2004, per esempio.

Il tema che lega tutte le canzoni del disco, che può essere visto come un concept, è la fine dell’amore. Ma è davvero destinato a finire sempre?

Il disco è concepito come una storia d’amore in tutti i suoi passi, soprattutto, ovviamente, la fase conclusiva. E può essere visto come un congedo, tanto che il brano conclusivo si chiama “Commiato”. Specialmente da quando ho iniziato a fare concerti da solo, come questo di Forlì, ho iniziato a dover parlare con la gente, mentre la presenza della band ti copre un po’ le spalle da quel punto di vista. Mi è venuto naturale spiegare a chi mi ascolta perché scrivo sempre canzoni sull’amore che finisce. Naturalmente io non sono solo stato lasciato nella mia vita, ho avuto anche degli inizi di storie, però penso che ogni cantautore ha la predisposizione a lavorare in un determinato momento. Ricordo per esempio un intervista a Manuel Agnelli in cui diceva che lui scriveva solo ed esclusivamente nei momenti di dolore, forse è un falso storico, ma ho questo ricordo. Però ci sono artisti, se vogliamo andare nel mondo delle canzoni italiane più “popolari”, come Jovanotti, che scrivono solo quando sono innamorati. Forse non è mai stato lasciato Jovanotti? Se è successo non ce l’ha mai detto. Dall’altra parte, andando da Cocciante a Tiziano Ferro fino alla maggior parte degli indipendenti, abbiamo l’opposto. Per esempio, esiste una canzone di Godano in cui lui si è messo con qualcuno? Io so solo di canzoni in cui lui ha dei problemi con l’altro sesso. Io per lungo tempo sono stato predisposto a scrivere solo nei momenti difficili; nel prossimo disco voglio iniziare a scrivere canzoni che parlino anche di un’altra visione dell’amore. Mi sono detto: “ok, adesso che sono sereno, proviamo a scrivere qualche cosa”.

Credo che le vostre canzoni si pongano nel solco della tradizione cantautorale, che tentate però di aggiornare con riferimenti sonori odierni, con inserti per esempio riconducibili all’indietronica o al post-rock. E’ una giusta interpretazione?

Di sicuro ci sono molti artisti che si pongono alla musica pensando più a quello che ha da dire rispetto ad altro. D’altra parte c’è anche chi è legato maggiormente solo alla musica, si ricorda solo di quella quando ascolta un pezzo. Ci sono poi differenze anche all’interno di una stessa band: per esempio Francesco, il nostro batterista, forse perché ha molto a che fare con l’ambiente della dance, è poco interessato a quello che voglio dire nelle canzoni, a meno che io non vada ad usare parole che sono proprio contrarie al suo vocabolario. Io invece, ovviamente, sono molto legato ai testi, che per me sono la cosa primaria. Le canzoni nascono in maniera molto semplice, chitarra e voce oppure piano e voce. Ho gente intorno a me, come Francesco, che è anche produttore ed è quindi legato al suono. Si riesce così a togliere la musica dal contesto, mentre io tenderei a farla aderire perfettamente alla canzone, rischiando di infilarmi in un filone di revival anni ’60, perché sono molto influenzato dalla tradizione dei cantautori, dagli inizi fino al Battisti degli anni ’80. L’idea di fondo è sempre stata, dall’inizio, lasciare spazio anche a chi ha la passione per le note piuttosto che per le parole, sperando che le scoprissero in un secondo momento. Questo grazie a Francesco e a Nicola, che probabilmente non hanno mai scritto un testo nella loro vita, e non è il loro principale interesse, che mi hanno dato una grossa mano da quel lato. In definitiva, da una parte c’è la mia esigenza di svecchiare un genere, dall’altro il loro apporto che è disinteressato rispetto a quello che si vuole dire, ma interessato a dare qualcosa di nuovo alla canzone d’autore italiana

Il legame con la tradizione cantautorale è reso evidente anche dalle cover scelte in questo disco, cioè “Ancora tu” di Battisti e “Buona fortuna” di Baglioni. Avete avuto una specie di timore reverenziale quando le avete affrontate?

Io non ho mai avuto l’idea di fare cover di un pezzo che adoro, per esempio “Hallelujah” di Jeff Buckley o qualcosa dei Radiohead. Non credo che mi sorprenderete mai a rifare canzoni di quel tipo, perché ritengo di non poter dare nessun apporto. Non pensate al mio ego come a qualcosa di troppo grande, ma mi piace andare a prendere dei brani che penso di poter migliorare. La cover di Battisti non doveva finire nel disco, era in un tributo allegato al Mucchio Selvaggio. Ci chiesero di fare un pezzo di Battisti, la scaletta era già chiusa e cercai un brano che non era ancora stato scelto. Mi sono messo a riascoltare il suo materiale, che tutti conosciamo, ma che non avevo chiarissimo nella mia mente. Ho capito che il primo Battisti lo sentivo molto distante, quello degli anni ’80 con Panella non riuscivo ad ascoltarlo, ma ho scoperto un grande amore per quello di fine anni ’70, le ultime cose con Mogol. Ritenevo però che su alcuni testi Battisti avesse, come dire, sbagliato. Per esempio “Ancora tu” ha un testo di una malinconia incredibile e lui lo fa come se fosse una festa di carnevale. Ho pensato che forse non era quella la chiave che intendeva Mogol scrivendo il testo; ho poi trovato una versione demo chitarra e voce in cui la faceva non esattamente come la facciamo noi, ma comunque riportata ad una dimensione di malinconia. La scelta è caduta su quella, era il momento in cui Nicola entrava ufficialmente nel gruppo, l’abbiamo realizzata in presa diretta ed è stata molto importante perché abbiamo capito che il suono della cover doveva essere il suono di tutto il disco. Da lì abbiamo ripreso quanto già registrato, abbiamo eliminato i brani più ritmati e rivisto altri, per renderli più essenziali. Per quanto riguarda Baglioni invece è successo come per altri brani che ho rifatto. Avevo qualcosa di importante da dire, come succede a tutti, per esempio per mandare un messaggio a una ragazza. La canzone originariamente era per una storia che finiva, io ho cambiato qualche parola qua e là, perché avevo bisogno di scrivere per una persona che non c’è più, una persona che era scomparsa. Mi è sembrato il modo più rispettoso e mi è venuto naturale farlo. Poi ho semplicemente urlato meno nella canzone, perché da un certo punto Baglioni, come è solito fare, si mette ad urlare. Io, sempre con il mio ego forse troppo grande, ho pensato che quella canzone non dovesse essere così urlata. Credo che le cover non rispecchino per forza i tuoi trascorsi, per esempio non sono un fan di Baglioni, se lo sono è solo di ciò che faceva negli anni ’70; nei primi ’80, quando ha fatto “Buona fortuna”, tendeva ad essere un po’ eccessivo. In generale, più che agli artisti sono legato alle canzoni, riesco a scindere la canzone dal suo esecutore e credo sia una cosa molto importante; per esempio “Buona fortuna” ha per me un significato come canzone a sé stante, al di là di chi l’ha scritta.

Molte sono le collaborazioni con grandi nomi della musica indipendente italiana. Mi ha particolarmente colpito la poesia di Pedro Pietri recitata da Emidio Clementi. Potete dirci qualcosa su come è nata l’idea e come si è sviluppata?

Emidio Clementi vive a Bologna ed ha sempre vissuto abbastanza la città; questo non vuol dire andare ai rave di notte, ma semplicemente passeggiare per il centro o andare in Feltrinelli. Per esempio il primo appuntamento me lo diede proprio lì. Io l’ho conosciuto come scrittore prima che come musicista, sapevo dell’esistenza dei Massimo Volume, ma ai tempi non li avevo molto apprezzati. Mi innamorai di tutti i suoi libri a partire da “Il tempo di prima”, fino a “La notte del Fratello” e a “L’ultimo Dio”, così legati a Bologna e così legati alla storia della propria famiglia. In quel periodo è uscito il disco di El Muniria, che ho adorato e che mi ha spinto a riscoprire i Massimo Volume. L’ho avvicinato per la prima volta prima che uscisse il nostro disco del 2003, in quel periodo stava lavorando con molti progetti e mi disse “che senso ha fare un’altra collaborazione con Clementi oggi?”. Poi siamo comunque rimasti in contatto, scrivendoci qualche mail e facendo qualche aperitivo, dato che alla fine il centro di Bologna è piccolo, lo attraversi in cinque minuti ed è facile incontrarsi. Lì è nata la voglia di fare qualcosa assieme; gli ho proposto molte cose, in linea con i 4fioriperzoe, quindi con gli archi o addirittura senza ritmica, ma lui trovava tutto simile a quello che aveva già fatto fino a quel momento, penso a livello di atmosfera, perché gli proponevo cose di orchestra mentre lui è sempre stato orientato più verso il rock e poi l’elettronica. Quando è arrivato questo brano si è illuminato e mi ha chiamato dicendo che era quello da fare. Mi rendo conto che sia il brano più fuori dal disco, ma visto che alla fine la sua è stata una collaborazione attiva, era giusto che scegliesse lui. A quel punto ha scelto anche il testo, gli chiesi se l’avesse scritto lui e mi rispose che era anche meglio, cioè la poesia di Pietri. Poi in 2 take l’abbiamo registrato.

Il vostro primo disco era uscito per la Mescal e partecipaste anche al Tora! Tora!. Cos’è cambiato nella scena indipendente italiana in questi anni?

E’ cambiato tanto, ma non sono cambiate le persone, anche se sono aumentate. Quando è uscito il primo disco, nel 2003, c’era una forte democratizzazione della musica, che ora è però arrivata agli eccessi. A tutti ormai è data la possibilità di fare un disco in casa, ascoltabile: questo da un lato è positivo, dall’altro intasa tutte le vie. Io posso fare un disco con l’orchestra, qualcosa di alto livello, ma se poi non ho i canali finisce in una pila di cd che una volta era alta cinquanta centimetri, ora è alta due metri e se non è nei primi tre chi ascolta, giustamente, si spazientisce. Ciò non toglie che manca addirittura chi ascolta questi dischi, perché le major stanno facendo dei tagli, di cui risentono anche le indipendenti, che spesso usavano canali per la distribuzione o contratti editoriali che ti davano anticipi e la possibilità di stampare dei dischi. Tutto questo non esiste più, anche solo pensare di essere trattati come siamo stati trattati noi all’uscita del primo disco oggi è follia, anticipi di royalties sono praticamente impossibili per un gruppo all’esordio. Sono cambiati i locali, ci sono più locali piccoli in cui noi andiamo a suonare, qualche volta è molto bello, altre invece ti trovi davanti a gente assolutamente non interessata che magari ti chiede anche “One” degli U2; però poi vedi che anche gli altri artisti, tuoi pari come fama o anche superiori, suonano negli stessi posti. Quindi non è un problema tuo, di aver trovato il locale sbagliato, è generale: ci siamo trovati a colonizzare posti dove in realtà siamo fuori luogo. Un’altra cosa interessante è che vedi che le major oggi propongono cose che sarebbero rimaste indipendenti fino a poco tempo fa. Oggi suono con Appino degli Zen Circus, che hanno dei brani che potrebbero essere tranquillamente in radio; forse hanno una parolaccia in più, ma chi non le mette ormai? Quindici anni fa c’erano “Bella stronza” e “Vaffanculo” che erano in continuo giro radiofonico, quindi non credo che siano questi i problemi.

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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