sabato, Ottobre 12, 2024

Amor Fou, la foto intervista di indie-eye.it

Fotografie di Alice DeMontis

Gli Amor Fou sono uno dei progetti più ambiziosi della musica italiana odierna. Il loro nuovo disco pubblicato per Emi Music si intitola “I Moralisti” e si propone di tracciare una descrizione dell’Italia degli ultimi anni, tra poesia e coscienza civile. Abbiamo parlato con il gruppo al gran completo di come è nato questo piccolo grande gioiello. Ecco cosa abbiamo scoperto.

 

I Moralisti” arriva a tre anni di distanza da “La stagione del cannibale”; in questi tre anni sono cambiate molte cose nel gruppo, innanzitutto la line-up, con il conseguente abbandono dei suoni elettronici. Com’è stata quindi la gestazione del disco? Cos’hanno portato di nuovo Giuliano Dottori e Paolo Perego?

Giuliano faceva già parte del gruppo come chitarrista a partire dal tour del primo album, mentre Paolo si è aggiunto all’inizio del tour che ha promosso l’EP “Filemone e Bauci”. Sicuramente hanno portato la compattezza che ci è sempre mancata, nel senso che fin da subito io e Leziero abbiamo voluto intendere questo progetto come una band vera e propria, che condivideva un po’ tutto nel fare musica, e che quindi poi risultasse compatta nel suonare dal vivo piuttosto che nel registrare e nel produrre la propria musica. Ci siamo riusciti in quest’ultima fase, nel momento in cui siamo andati ad approcciare la produzione di quest’ultimo disco. Devo dire che i cambiamenti principali che si sentono credo siano di attitudine; il disco nelle nostre intenzioni doveva suonare come il lavoro di una band che l’aveva scritto, suonato, arrangiato in modo fluido, rispetto al primo, che resta un buonissimo prodotto, però è più “prodotto”, risulta sicuramente più costruito e probabilmente anche meno viscerale. La visceralità era invece già presente nello spirito del progetto dall’inizio.

Il disco esce per la EMI, che vi ha scritturato “in extremis”, quando sembrava dovesse essere La Tempesta a curare l’uscita. Come è avvenuto il contatto con la nuova etichetta?

Il contatto in realtà c’è stato un po’ da sempre, nel senso che Leziero aveva già collaborato con persone di questa struttura in passato e comunque, almeno a Milano, il nostro progetto era già conosciuto, almeno tra gli addetti ai lavori; per cui un occhio c’è sempre stato, anche se magari in modo più defilato. Nel momento in cui abbiamo annunciato il disco c’è stata una richiesta specifica da parte della EMI di ascoltarlo e immediatamente è arrivata la proposta, per cui probabilmente è stata una scintilla, un amore a prima vista. Visti i tempi di una major, è abbastanza raro che ci voglia così poco. Vorrei sottolineare che noi non l’avevamo nemmeno proposto alle major questo disco, nel senso che per la forma, i contenuti e il taglio che aveva pensavamo dovesse fare ancora un suo percorso, sia il disco che il progetto, per arrivare a quello che sicuramente per noi poteva essere un approdo fisiologico. I tempi sono stati abbreviati dall’entusiasmo che c’è stato per il disco da parte loro.

Nell’ultimo intervento sul blog della band (http://amorfou.blogspot.com/) si parla di Damon Albarn e dei Blur, dal punto di vista della descrizione della società attraverso il pop. È la stessa cosa che cercano di fare gli Amor Fou, filtrandola attraverso la storia, musicale e con la S maiuscola, italiana?

È esattamente la stessa cosa. Lì ho preso spunto da questo brano, “Fool’s Day”, e dal suo testo, che è per l’ennesima volta un ritratto molto profondo, acuto e attendibile di un lato della società inglese, fatto in modo molto leggero e conciso, per ribadire questa cosa: all’estero, non solo all’interno della canzone d’autore in senso stretto, si è riusciti a conservare questa attitudine documentaristica e anche di riflessione, e in particolare Albarn lo ha fatto benissimo in tutti i suoi progetti. Sicuramente ci sentiamo in questo molto vicini a delle realtà musicali non necessariamente italiane, anzi molto spesso straniere, che però mantengono dei forti punti in comune con quella che è stata la canzone d’autore italiana fino a pochi decenni fa, che aveva una forte componente di documentazione.

In questi ultimi anni altre band, oltre a voi, stanno cercando di risvegliare le coscienze in Italia, con modi e generi diversi da quelli codificati in passato. Penso ad esempio ai Baustelle o al Teatro degli Orrori. Come spiegate l’esigenza sentita da più gruppi di dire qualcosa sulla società in modo così forte?

La cosa che credo leghi questi gruppi è l’età di chi scrive, l’appartenenza generazionale. Penso sia una cosa fisiologica che una persona di 30-35 anni ha nella sua vita quando fa un certo tipo di percorso, e se fa musica credo sia una conseguenza abbastanza naturale. A me fa piacere che persone che vengono più o meno dalla stessa generazione e probabilmente sono cresciute nello stesso modo o vedendo le stesse cose, a un certo punto abbiano fatto la scelta, attraverso la propria musica, di dare la precedenza ad un determinato tipo di contenuto, mentre si può notare che altri progetti più recenti non presentano questa esigenza. Credo sia legato, non voglio dire a un certo tipo di educazione, però al fatto di essere cresciuti a contatto con certe realtà e di essere educati a farsi certe domande.

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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