mercoledì, Aprile 24, 2024

Foals – Total Life Forever (Transgressive/SuB Pop – 2010)

I Foals non sono dadaisti. Sono metodici e matematici, meticolosi fino al dettaglio più minuscolo. Compongono le loro canzoni come un puzzle, un sottile gioco di incastri che, come pezze di seta, sono passate alla macchina da cucire di Jack Bevan, uno dei migliori batteristi in circolazione. Nel loro precedente e sorprendente album Antidotes, del 2008 si era quasi pensato al miracolo: una band britannica che riesce a tenersi nel solco della tradizione rinnovandola, unendo il math rock (Bevan e Philippakis provengono da questo genere) e la “new new wave”, la canzone pop e l’ arcignità di impeccabili arrangiamenti chitarristici in semiminime, il tutto spinto al massimo da ritmi percussivi tali da far pensare che alla batteria ci fosse uno con quattro mani. La formula rimane invariata, i numeri sono gli stessi, anzi rafforzati. L’album ha più spessore e più volume ma, purtroppo, meno idee. Del resto le conferme sono sempre più difficili degli esordi, ed è ancora più difficile fare il disco della maturità quando maturo lo sei già diventato. Quello che più viene fuori dall’ album è un rimpasto non troppo riuscito, né riattualizzato del periodo 80-83, in cui Bowie faceva gli ennesimi centri con Ashes to ashes e Let’ s Dance, i Talking Heads gettavano i semi del futuro e i Clash facevano la rivoluzione Sandinista! Insomma a conti fatti il meglio degli anni 80, e di questo va dato loro atto, ma quasi trent’anni dopo è leggermente tardi. Per fortuna c’è il solito Bevan che salva tutto in acrobazia su calcio d’ angolo. Anche se, a dire il vero, è spesso tenuto un po’ troppo a bada: perché? Forse perché si è voluta inzuppare la cifra stilistica dei Foals nella melassa elettronica preparata (con ghiaccio, il disco è stato iniziato a registrare in Svezia) da Dave Sitek dei TV on the Radio, che anziché esaltarne il gusto la rendeva piuttosto stucchevole. E forse ecco perché, dopo essersene accorti, i cinque puledri di Oxford hanno deciso di tornare a casa a farsi finire di produrre dal più collaudato Luke Smith al The Fly Studio, che ha reso una miglior giustizia alla causa. Certo, il singolo, Spanish Sahara è bellissimo, anche se invaso com’è dal vento del nord, ricorda quasi i Sigur Ros, anche come durata (7 minuti), e poi la traccia uno Blue Blood, e la sette, Fugue, sono altrettanto belle, anche se, queste si, ricordano molto Byrne e soci. Philippakis sembra in generale aver scelto di diventare più bello che bravo, lasciandosi andare talvolta in gorgeggi che non fanno decisamente al caso suo, ma la sua resta nel complesso una voce interessante e adeguata. Il disco la sufficienza se la merita tutta, così come se ne consiglia caldamente l’ ascolto, visto che, ripeto, almeno con suoni e arrangiamenti, non si è badato certo a spese ed il buon gusto e la tecnica abbondano. L’ ultimo rammarico da appassionato un po’ deluso è però il seguente: anche se andrà tutto bene, la prossima volta, almeno quelle cazzo di chitarre acustiche, toglietele.

 

Michele Baldini
Michele Baldini
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