La luce infinita della trazione rock americana
Diventa necessario considerare anche gli episodi del collettivo più espanso per capire anche l’evoluzione dei Lightning Dust. Nel 2008 i Black Mountain escono con In The Future, monolite migliore, riuscito nei suoi riff devastanti e in quell’alone di magia nera che farà innamorare centinaia di hippies fuori tempo massimo. Bastano canzoni come Wucan per sentire che l’hype del rock’n’roll settantiano volendo può trasferirsi ripotenziato alle nuove generazioni (basta una spruzzata di soul e si vede come emergono i The Roots). Stormy High si fa portare via dal vento (impersonato dalla Webber nei suoi cori triplicati) nonostante pesi come un macigno. Stay Free non somiglia all’omonima canzone dei Clash, quanto più ai Led Zeppelin, come un po’ buona parte del disco. Ancora Black Sabbath, quelli di Paranoid e di Master of Reality, in Evil Ways, con spruzzate etniche à la Rolling Stones. La chicca rimane la lunghissima Bright Lights, chiare e nitide luci che inquadrano cosa sono i Black Mountain, con un notevole contributo della Webber. Un’attitudine più moderna colpisce i Black Mountain, anche a sentire la conclusiva Night Walks, che sembra proprio calzare al side-project di cui stavamo trattando.
Ma per fortuna le rotte sono altre nella coppia Wells-Webber. Infinite Light esce nella pausa discografica del 2009, e si schiude come un’alba verso atmosfere meno plumbee e tenebrose del precedente. Già Antonia June dà la precedenza a una melodia mattutina, fatta di piano e chitarra acustica, con un’apertura alla Electrolite dei R.E.M.. I Knew è uno sparo ai Lightning Dust degli esordi: una base elettronica pulsante risalta un rock che potrebbe nascere dalle viscere di Johnny Cash e nei fatti tende a somigliare a un’altro episodio minore dei R.E.M., Hope. La monotonia degli esordi passa in secondo piano verso crescendo anche strumentali (i violini di Dreamer erano inediti prima d’ora). The Times rincorre ancora i miti del rock, come pure Waiting on the Sun to Rise, una versione depotenziata e rallentata di Street Fighting Man. Per evidenziare quanto il Nordamerica sia entrato nei cuori dei canadesi, si ascolti l’organo di Never Seen, rubato dai Supertramp, gruppo che sull’idea di sogno americano ha concepito l’album più famoso della loro carriera, Breakfast in America. History mostra come il modello L. Dust si sia potuto adeguare alle chitarre acustiche e al pianoforte senza perdere niente della forza poetica che sta alla base del progetto. La conclusiva Take It Home mette sul piatto un tributo ai Portishead, che in questa ventata nostalgica verso il passato calza a dovere.
Il progetto procede e va avanti allontanandosi dal modello originario intimista e goth, i viaggi personali e le tournee dei Black Mountain invece continuano ad incidere, avendo una parte attiva nella conversione americana del duo. Ma durerà ancora per poco. (Continua nella pagina successiva…)