giovedì, Aprile 18, 2024

L’uomo che cadde sulla terra: David Bowie attraverso 10 album # 1

E disponibile dal 3 dicembre la distribuzione europea del David Bowie Box pubblicato da sony; cofanetto che continene gli ultimi cinque album di Bowie, ovvero Outside, Earthling, Hours Heaten e Reality presentati in edizione speciale doppio cd. Insieme ad ogni album vengono pubblicati tutti i remix, le b-sides contenute nei singoli relativi al periodo di pubblicazione. Abbiamo sfruttato questa occasione per chiedere a Federico Fragasso di tornare indietro e (s)mitizzare dieci album mitici del duca bianco in 5 articoli pubblicati a partire da oggi.

“L’uomo che cadde sulla terra” – il percorso artistico di David Bowie attraverso l’analisi di dieci album fondamentali.

bowie_roeg.jpgFigura chiave del Rock negli ultimi 40 anni (il suo primo album ufficiale risale in effetti al 1967), David Bowie non ha mai mancato, nell’arco di una lunga e fruttuosa carriera, di suscitare in pubblico e critica pareri contrastanti. Personaggio camaleontico per eccellenza, è stato di volta in volta osannato da coloro che ne ammiravano la continua capacità di rinnovarsi a livello musicale, peraltro spesso evidenziata da drastici mutamenti di look, o denigrato da quanti lo ritenevano un semplice collezionista di idee altrui. A parziale conferma dei secondi è evidente come nel corso del tempo il musicista inglese abbia assimilato intuizioni e stimoli sonori dall’ambiente che lo circondava. In Bowie, insaziabile e appassionato consumatore di musica (ma non solo, i suoi testi hanno sempre evidenziato un interesse nei confronti di letteratura, filosofia e religione), non è mai scomparso quel lato entusiasta e leggermente naif tipico del fan, esplicitato nei numerosi omaggi disseminati all’interno dei suoi dischi. Allo stesso tempo è innegabile la capacità di sintesi dimostrata dall’autore e la personalissima rielaborazione dei suddetti stimoli da lui effettuata, in particolar modo in quella fase della carriera che va dal 1971 al 1980. Se gli incerti esordi del nostro costituiscono una pagina tutto sommato trascurabile, gli anni ottanta ne illustrano il periodo artisticamente più buio, i novanta e i tempi più recenti evidenziano solo una parziale ripresa, gli anni settanta hanno invece visto Bowie in stato di grazia inanellare un capolavoro dopo l’altro. L’alta qualità della scrittura, l’abilità nell’anticipare i tempi e nel creare trend piuttosto che seguirli, unite al grande amore per la teatralità, retaggio dell’attività di mimo svolta nella troupe di Lindsay Kemp in giovane età, hanno contribuito a fare di Bowie un personaggio unico e ad inserirlo a pieno diritto fra i dominatori del decennio.

hunky_dory.jpgÈ significativo che il primo grande successo dell’artista, Hunky Dory (1971), si apra con una canzone emblematica fin dal titolo, Changes. Il pianoforte dell’ospite Rick Wakeman (più tardi negli Yes) e il sassofono di Bowie si intrecciano per comporre una memorabile ballata rock che esplode in uno dei ritornelli più contagiosi di sempre. David, che nel testo si definisce “il falsificatore”, passa in rassegna le mille strade che la sua carriera lo ha portato ad imboccare, interrogandosi su come la propria immagine possa essere percepita e concludendo che è “troppo veloce” per venire influenzato dal giudizio altrui; sembrerebbe davvero una dichiarazione d’intenti! Segue il Cabaret pianistico di Oh! You Pretty Things, una frizzante melodia che accompagna un testo sottilmente inquietante. Le “cosine carine” altro non sono che i bambini, visti dal nostro come una nuova razza di superuomini Nietzschiani destinata a soppiantare l’ Homo Sapiens. La chitarra blues e il piano riverberato di Eight Line Poem, haiku di urbana quotidianità, fungono da interludio prima del terzo pezzo forte, Life On Mars?, splendida progressione melodica dal sontuoso arrangiamento orchestrale. Il testo, apparentemente indecifrabile, elenca senza soluzione di continuità una serie di icone pop che vanno da John Lennon a Mickey Mouse. Kooks è la quintessenza del rock inglese, sulla scia di quanto avevano già fatto i Kinks e faranno poi gli XTC, mentre l’acustica Quicksand chiude la prima facciata dell’album con toni apparentemente pacati. Le parole che accompagnano la musica sono fra le più rassegnate dell’intero catalogo Bowiano: “lacerato fra luce e tenebre”, l’artista appare disorientato di fronte alle trappole tese da religione e politica, mistificazioni che il suo “potenziale superumano” gli permette di percepire ma alle quali non è capace di trovare un’alternativa. Senza un fine ultimo a cui tendere David non può fare altro che rimanere impantanato nelle “sabbie mobili del proprio pensiero”.
La cover di Fill Your Heart, dell’americano Biff Rose, introduce il tris di canzoni in cui l’artista rende omaggio al gotha della scena alternativa statunitense. C’è il cupo folk di Andy Warhol, c’è una Song For Bob Dylan, il cui titolo rende superflua ogni ulteriore spiegazione, e una Queen Bitch, in cui la figura di riferimento è invece quella di Lou Reed. All’interno di un album caratterizzato prevalentemente dalla dimensione acustica e dominato dal pianoforte questo ultimo pezzo spicca come l’unico in cui la chitarra elettrica di Mick Ronson è posta prepotentemente in primo piano, anticipando lo stile che Bowie seguirà a partire dal lavoro successivo. Chiude l’opera la sinistra The Bewlay Brothers, lungo corridoio di echi e riverberi che sembra affrontare la relazione fra David e suo fratello maggiore Terry. Quest’ultimo, affetto da una progressiva forma di schizofrenia, sarebbe morto suicida anni dopo. La malattia mentale congenita alla propria famiglia ha effettivamente rappresentato una costante fonte di preoccupazione per l’artista: condotto nel “Padiglione della Mente Alterata” egli si trova faccia a faccia con i propri demoni e a loro sembra rivolgersi mentre mormora “per favore andate via”, nella delirante filastrocca finale.
Hunky Dory è per Bowie un album fondamentale, nonché quello da cui abbiamo scelto di cominciare quest’analisi, per almeno tre ragioni. Non solo fotografa la piena maturità del compositore e sfiora una perfezione mai raggiunta prima nell’accuratezza degli arrangiamenti ma vede per la prima volta gli Spiders From Mars al gran completo affiancare il nostro in qualità di gruppo spalla, così come sarà per i successivi tre album. La band, che vede Mick Ronson alla chitarra, Trevor Bolder al basso e Mick Woodmansey alla batteria, accompagnerà David lungo tutta la sua fase Glam, spingendo il sound del cantautore in direzione più orientata al Rock. In particolare Ronson sarà un collaboratore prezioso in studio suonando chitarra, pianoforte, sintetizzatore mellotron e contribuendo ad arrangiare gli accompagnamenti d’archi.

ziggy_stardust.jpgPer il successore di Hunky Dory Bowie imbastisce un’operazione ambiziosa che si rivelerà un vero e proprio colpo di genio, ripagandolo dei suoi sforzi e proiettandolo definitivamente verso la notorietà. The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The Spiders From Mars (1972) costituisce un Concept Album (piuttosto sconnesso a dire la verità) nel quale si narrano la scalata al successo e il declino di una singolare rockstar del futuro. Ziggy diventa un messia per milioni di persone ma è presto travolto dal peso che la sua condizione comporta. Accecato dal proprio ego litiga con i musicisti del suo gruppo e finisce per essere abbandonato persino dai fan, rimanendo solo a meditare il suicidio. David non si limitò a raccontare il personaggio, si identificò totalmente con esso indossandone i panni, ed è noto come fu proprio l’interpretare la star che lui ancora non era a renderlo tale. Grande peso nel successo di Ziggy, prima fra le molte figure che Bowie incarnerà nel corso del decennio, ebbe sicuramente il look. Disfattosi delle camicie hippy e tagliate le lunghe chiome bionde l’artista decide di giocare in maniera ancor più provocatoria che in passato la carta dell’ambiguità sessuale: trucco pesante da drag queen, capelli rosso carota corti e ispidi, sgargianti tutine, anfibi al ginocchio (pare peraltro che la visione dell’ Arancia Meccanica di Kubrick abbia influito non poco sul rinnovamento del guardaroba). A voler confermare la lungimiranza del nostro, proprio in quei giorni l’Inghilterra viene attraversata dal terremoto del Glam Rock, innescato inizialmente dai T-Rex di Marc Bolan. Non ci vorrà molto prima che Bowie sottragga a quest’ultimo lo scettro di idolo degli adolescenti. Ma sarebbe ingiusto ridurre Ziggy esclusivamente ad un fenomeno di costume dato che l’album in questione è prima di tutto una raccolta di grandi canzoni pop. La produzione è cristallina, gli arrangiamenti se possibile ancora più levigati che nel predecessore. Questa volta però, accanto alle consuete orchestrazioni, al pianoforte, al sassofono e alle chitarre acustiche si possono ascoltare ruggenti chitarre elettriche, in un alternarsi di strofe soffuse e stacchi brucianti. I soggiorni newyorkesi di David nel ’71 lo hanno infatti convertito al culto del massimo volume tramite la frequentazione di Stooges, Velvet Underground e New York Dolls (è in questo stesso periodo che l’artista si occuperà di produrre Raw Power degli Stooges e Transformer di Lou Reed).
In controtendenza, l’incipit Five Years è una ballata acustica struggente che delinea lo scenario di sfondo alle vicende del protagonista: la terra è condannata ad estinguersi nell’arco di cinque anni e, come in una pellicola, scorrono davanti agli occhi le scene di panico innescate nella folla all’annuncio del notiziario televisivo; l’immagine del cronista che “…piangeva così tanto da farmi capire che non stava mentendo…” è una delle più evocative fra quelle partorite dall’artista. La strofa di Soul Love, arricchita da un assolo di sax del nostro, esplode in un gioioso ritornello elettrico mentre Moonage Daydream attacca rabbiosa con David/Ziggy che ringhia “sono un alligatore/sono mamma-papà che viene a prenderti/sono l’ invasore spaziale/sarò una puttana rock’n’roll per te” per poi chiudersi su una coda psichedelica di chitarra e sintetizzatore. L’acustica Starman è il singolo della consacrazione, avvenuta in una “scandalosa” performance a Top of the Pops nel Luglio del ’72. It Ain’t Easy di Ron Davis è la consueta cover mentre la delicata ballata pianistica Lady Stardust tratteggia il profilo di un personaggio androgino; sembrerebbe riferirsi proprio a Marc Bolan, uno dei modelli ispiratori per la figura di Ziggy. Un piano martellante alla Elton John introduce Star, parabola sul successo cui fa seguito un altro attacco tipicamente Rock’n’Roll come Hang On To Yourself.
Ziggy Stardust, ripresa anni dopo in copia carbone dai Bauhaus, introduce la figura del protagonista e sfoggia un riff di chitarra memorabile. Il “Messia Lebbroso” che “fa l’amore con il proprio ego” e “suona la chitarra con la mano sinistra” rappresenta l’archetipo della rockstar, un personaggio in cui convergono tratti di Jimi Hendrix, Iggy Pop, Lou Reed, Jim Morrison, oltre che del già citato Marc Bolan. Nell’andatura Hard Rock di Suffragette City è già presente il seme che germoglierà nei Sex Pistols (peraltro se si confrontano le figure di un Johnny Rotten o di un Sid Vicious con quella del giovane David è facile comprendere come il Punk debba molto agli Spiders) mentre l’incedere melodrammatico di Rock’n’Roll Suicide, che risente dell’influenza di un altro idolo di Bowie, il chansonnier francese Jaques Brel, conduce trionfalmente alla chiusura dell’album.

Federico Fragasso
Federico Fragasso
Federico Fragasso è giornalista free-lance, non-musicista, ascoltatore, spettatore, stratega obliquo, esegeta del rumore bianco

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