lunedì, Aprile 28, 2025

Bancale, l’intervista – 5-9-2012 – Festa Democratica di Osnago

In varie interviste e recensioni si parla di ermetismo per quanto riguarda i testi; invece secondo me si può più parlare di simbolismo, con ad esempio immagini che ricorrono in vari testi. Che ne pensi?

L: parlerei di allegoria e quindi anche di simbolismo. Tutto Frontiera è un’allegoria chiusa, oserei dire, nel senso letterario, con un certo tipo di significato che riguarda la fine, la morte. Ad esempio l’utilizzo ricorrente degli animali ha questo significato, il cane randagio di cui parlo in Randagio non l’ho mai conosciuto e quindi è proprio un simbolo. Dall’altra parte si può parlare di ermetismo, ma nel senso della vulgata comune, cioè perché non si capisce bene cosa dico…

Invece per quanto riguarda i riferimenti letterari presenti, da Pavese a Breece D’J Pancake, cosa ti spinge a omaggiare un autore citandolo o rielaborando la sua opera?

L: Perché sono stati importanti per me, non a tanto a livello umano, anche se alcuni sì, ad esempio Pavese, quanto a livello letterario, perché mi piace l’utilizzo che fanno del linguaggio. Un’altra cosa, che è giusto ammettere, è che le citazioni più o meno velate sono un ottimo modo per risolvere delle situazioni che non riesci a risolvere; questo l’ho fatto io ma l’hanno fatto anche scrittori molto più grandi di me.

Sul palco avete una carriola e delle lamiere. Possono essere l’idealizzazione dei due lati della bergamasca, quello contadino e quello industriale?

F: possono esserlo, ma non per forza. In realtà non c’è questo dualismo. Ci sono un sacco di altri aspetti che potrebbero emergere dalla dimensione della provincia, che può essere da alcuni punti di vista molto più aperta rispetto ai grossi centri, anche se da altri è innegabilmente più chiusa; per tutti questi aspetti potremmo quindi elencare gli strumenti che mancano, oltre ai due presenti e citati. Comunque non era quello l’obiettivo. In realtà sono la quotidianità, sono il fare di necessità virtù, sono il reinventarsi, sono il prendere un oggetto e il suo significato per dargliene un altro, sono tante cose.

L: tutto sommato la tua osservazione non è sbagliata, non ci ho mai pensato ma ci sto riflettendo ora. La provincia di Bergamo è passata da essere una provincia fortemente contadina ad essere una provincia fortemente industriale, oggi è arrivate ad essere una provincia fortemente ‘ndranghetista, e infatti la prossima cosa che introdurremo sarà una lupara.

F: allora posso farti notare il terzo anello della trinità bergamasca, l’edilizia: caso vuole che la cassa della mia batteria stia su tre mattoni. Chiudiamo così il cerchio.

L: per spiegare l’utilizzo degli strumenti da lavoro, che non è un perché voluto dall’origine, ma che è venuto poi, posso dire che l’idea è quella di utilizzarli per suonare la fatica, il lavoro di esistere. Fondamentalmente, è inutile che ci giriamo intorno, quel luogo comune che vuole che la provincia bergamasca sia un luogo dove il lavoro conta tantissimo, non è una balla. Ciò ha lati positivi e lati negativi.

Per proseguire l’analisi della bergamasca, lo scorso anno uscì su una nota rivista un articolo sui Verdena e la scena di Bergamo. Esiste davvero questa scena? Com’è suonare a Bergamo?

L: “scena” è sempre una parola un po’ giornalistica, ma per me esiste. Esiste un movimento, esistono delle realtà che a volte si incrociano e a volte no, ma che comunque fanno cose abbastanza specifiche rispetto ad altre province, in cui molto spesso ci sono degli epigoni di una band famosa. Da noi la band famosa sono i Verdena, però di epigoni praticamente non ce ne sono. Ultimamente sono uscite un po’ di cose interessanti e a un livello mediatico medio-alto, e altre ne stanno crescendo, abbastanza diversificate. Di certo la presenza dei Verdena ha aiutato il movimento. Alberto, Luca e Roberta sono persone assolutamente normali, vivono una vita assolutamente normale e sono stati un esempio di persone che, faticando tanto e in un altro periodo storico, in cui si mangiava con la musica molto più facilmente, ce l’hanno fatta. Quindi sì, c’è un movimento: mi vengono in mente i Verbal, Il Garage Ermetico, gli Spread, i Sakee Sed e altre ancora. Un’altra cosa da dire è che a Bergamo è abbastanza facile suonare rispetto ad altri luoghi. Purtroppo c’è questa brutta mentalità tutta italiana di pensare il luogo in cui si vive come il peggiore possibile: in realtà Bergamo è un discreto luogo in cui vivere e sotto certi aspetti è più che buono. Uno di questi aspetti, più negli anni scorsi rispetto ad ora, in cui la crisi si sta facendo sentire anche qui, è la presenza di spazi per suonare, che continuano a sopravvivere anche adesso. Il motivo non è la politica; si è riusciti a fare qualcosa dagli anni ’90 ad oggi per un semplice fatto, molto brutto da dire: perché ci sono i soldi. Dove c’è tanta industria, tanto business, c’è modo anche di avere soldi per fare cultura, New York non è un caso ad esempio.

Lavorare con Xabier Iriondo com’è stato?

A: è stata una bellissima esperienza, innanzitutto umana; è un grande professionista, un grande esploratore. Con me ha fatto un grande lavoro non tanto di manipolazione del suono, come è abituato, quanto di mixaggio. Ha aggiunto tanto al suono, perché se io penso alla batteria, registrata da lui e poi portata nel suo studio personale, ha cambiato pelle, senza nulla togliere alle mani e ai calli di Fabrizio. Gli ha dato un respiro diverso, e quindi a tutto il disco. In fatto di idee, quando abbiamo registrato con lui il disco era finito, quindi da quel punto di vista ha aggiunto poco, però a livello di suoni e di strutturazione, di irreggimentazione del suono, ha dato tantissimo.

L: secondo me una cosa importante che ha fatto Xabier è semplicemente essere stato sé stesso. Lui in Italia è uno dei pochi intellettuali della musica, uno che ha un punto di vista e un’interpretazione della musica rispetto ai tempi in corso. Lui fa una cosa molto semplice, ma fondamentale: cerca sempre di portarti al limite. Anche quando suona, noi abbiamo avuto la fortuna di suonarci insieme due o tre volte, il suo approccio alla chitarra è sempre quello: cerca sempre di portarti oltre i confini che avevi in mente, la Frontiera. Per quanto mi riguarda, ad esempio, mi ha spinto a fare parti vocali, che non sono finite nel disco, totalmente estreme e a mio modo di vedere anche abbastanza assurde ma che, finite le registrazioni, mi hanno aiutato a capire che potevo fare di più. Infatti penso che dei tre io sia quello che ha più beneficiato della cura Xabier perché mi ha proprio dato coraggio. Ad esempio prima a volte avevo paura, ora molto meno.

Sull’EP Crinale era dedicata a Clint Eastwood; dopo il suo show alla convention repubblicana gliela dedichereste ancora?

L: assolutamente sì. È giusto che sia un repubblicano, non c’è niente di male, lo è sempre stato, non lo era nel momento in cui era candidato non un repubblicano ma un pazzo a cui una persona di buon senso come lui si è opposta.

F: anche i Ramones erano repubblicani. In Italia l’ideologia ormai è diventata una sovrastruttura, nel senso che siamo obbligati ad avere dei referenti politici. Non credo che in America sia così, anche perché c’è un semplice dualismo tra democratici e repubblicani, che si alternano al potere. Non mi pare di aver notato grandi cambiamenti di rotta tra un governo e l’altro in realtà. Certo, magari fa figo dire “w i democratici”

L: un altro esempio può essere Cormac McCarthy, che è repubblicano e insegna in un’università ultracattolica. Poi, sinceramente, meglio un Clint Eastwood repubblicano che un Pierpaolo Capovilla del PD.

A questo punto, definireste politica la vostra musica?

L: sì, tutta la musica è politica. Non esiste niente che non sia politico. Partitica certamente no, politica sì. Non solo in Catrame, che è il pezzo politico in senso anche un po’ didascalico. Fare un intero disco nel 2012 che parla di fine, morte, l’oltre dove l’essere umano non può andare in quanto tale è fare politica molto più che denunciare le angherie che subiscono gli immigrati, perché non serve un disco per farlo, basta leggere Repubblica.

F: anche la scelte produttive sono politiche, per noi lo è stato l’autoproduzione, perché con essa rifiuti il dualismo potente produttore-artista, rifiuti l’idea che le cose debbano essere istituzionalizzate e rispondi ai tuoi bisogni in un modo talmente immediato che non può che essere una scelta fortemente politica

L: la tua domanda nasce forse dal fatto che oggi le cose che fanno più clamore in Italia, tanti nuovi cantautori, siano un po’ troppo chiusi in camera loro rispetto a quello che sta succedendo, seguendo purtroppo una tradizione che dura da tanto tempo. Negli anni ’70 i nostri cantautori presero posizione su tutto, poi negli anni ’90, come fece notare De André nella Domenica delle Salme, cantavano praticamente per tutti. Questo è profondamente sbagliato, specie ora, che non servono grandi proclami, ma almeno il coraggio di dire qualcosa non guasterebbe.

State lavorando al prossimo disco?

L: sì, stiamo lavorando a dei pezzi nuovi. Abbiamo registrato un brano con Alberto dei Verdena nel suo studio. Prima però uscirà un Ep di brani strumentali che abbiamo scritto per le colonne sonore di tre film di Lab 80, che è un’associazione culturale di Bergamo che produce film e organizza il Bergamo Film Meeting.

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Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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