La recente pubblicazione di Quintale ha provocato un piccolo terremoto mediatico all’interno del circuito indipendente italiano. Giovanni Succi e Bruno Dorella – fieramente posizionati all’epicentro del sisma – lasciano che a parlare sia soprattutto la musica e si giocano i consensi dal vivo, secondo una prassi ormai consolidata. Gli effetti collaterali che la mutazione genetica dei Bachi ha provocato, tuttavia, si estendono ad ampio raggio. Promoter ed agenti di booking, tanto per dirne una, sembrano aver perso la bussola. Così, se fino a qualche anno fa l’Auditorium Flog costituiva ancora una location inopportuna per una performance dei nostri, i due si trovano oggi catapultati in una situazione speculare ma altrettanto spinosa. A fronte di un set energico, finalmente consono alle grandi sale da concerto, la kermesse fiorentina dei Bachi viene confinata all’interno della Sala Vanni il 21-02-2013 Uno spazio indubbiamente suggestivo, che tuttavia avrebbe valorizzato al meglio i suoni felpati generati dal gruppo fino a pochi anni fa. Si assiste così ad uno spettacolo paradossale: decine di persone, educatamente sedute, vengono investite dalle deflagrazioni heavy metal di Succi e Dorella, mentre la Cena di Cristo in Casa del Fariseo – che adorna le pareti della stanza – rimanda indietro i suoni frammentati da centinaia di echi e riverberi. Da consumati professionisti quali sono i nostri riescono comunque a tenere banco, integrando passato e presente della band all’interno di un set perfettamente coerente. La storia discografica del gruppo viene interamente riletta in accordo alle dinamiche del fortissimo, tanto che persino un brano come Dragamine non sfigura affatto in versione hard. A pochi minuti dall’inizio del concerto abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Giovanni Succi, che si è dimostrato un interlocutore disponibile e stimolante.
Cominciamo con una domanda standard, che nondimeno si impone per dovere di cronaca: a cosa è dovuto questo cambio di sonorità, che a molti ascoltatori è sembrato alquanto repentino?
Repentino? Ci abbiamo messo 8 anni ad evolverci! Forse ce la siamo giocata male… per essere compresi avremmo dovuto fare due dischi come Tornare Nella Terra, due come Non Io, due come Tarlo Terzo e due come Quarzo, prima di arrivare a Quintale…
Beh, nonostante il metal in nuce di brani come Pietra della Gogna o Notte delle Blatte, lo scarto tra “Quarzo” e “Quintale” è quello di gran lunga più evidente all’interno del vostro percorso evolutivo…
Hai ragione, ma sai com’è… una teoria scientificamente provata sostiene che in natura, da un certo momento in avanti, l’evoluzione proceda a salti. Lo stesso è successo a noi. L’anello di congiunzione tra il prima e il poi, all’interno di questo percorso evolutivo, puoi identificarlo nello split con i Massimo Volume.
A questo proposito, mi piacerebbe che mi raccontassi la genesi di Stige 11. Il brano all’epoca mi aveva colpito molto, perchè costituiva uno spartiacque evidente all’interno della vostra produzione. È stato quel pezzo a fornirvi l’ispirazione per la scrittura di “Quintale” oppure faceva parte di una serie di composizioni già pensate secondo determinati schemi?
Già all’epoca l’idea era quella di evolverci in una certa direzione. Quel pezzo ci è servito ad affilare le armi, per così dire. La storia di Stige 11 è particolare, perchè il brano ha origini piuttosto remote… sei la prima persona a cui lo racconto… Inizialmente si intitolava semplicemente Stige, era una canzone che avevo scritto nel Novembre del ’94 in occasione di un’alluvione occorsa nella provincia di Asti, una delle tante. L’avevo scritta per i Madrigali Magri e mi era sempre piaciuta, ma non avevo mai trovato la chiave giusta per inserirla in qualche album. Quando mi sono reso conto che volevo fare il salto evolutivo di cui sopra ho deciso di ripartire da lì. L’ho completamente ripensata e riscritta, ma qualcosa di quel ’94 è rimasto.
Passando invece agli aspetti produttivi e promozionali, a cosa è dovuta la scelta di abbandonare la Wallace e Ivan Rossi per passare alla Tempesta e a Favero? Si tratta di una decisione basata su legami di amicizia oppure deriva dalla volontà di raggiungere un determinato tipo di risultato artistico?
Beh, anzitutto non siamo noi che abbiamo scelto di passare a Tempesta, è stata una proposta che ci è arrivata da loro. Giulio Favero aveva espresso la volontà di produrci un disco già dai tempi di Tarlo Terzo. All’epoca però avevamo un discorso avviato con Ivan Rossi e non volevamo chiuderlo di punto in bianco. Tant’è che Ivan ha finito per registrare anche Quarzo. L’occasione si è presentata in seguito, dato che ci siamo imposti di non fare mai più di due dischi con lo stesso produttore. Tieni presente che nel gruppo siamo solo in due, di conseguenza chi si occupa dei suoni assume un peso determinante. Ovviamente il numero di combinazioni che scaturiscono dall’interazione fra tre persone è limitato, e da questa consapevolezza deriva la nostra scelta. Per quanto abbiamo deciso di lavorare sui limiti e vedere fin dove riusciamo a spingerci con una chitarra e due tamburi, né io né Bruno siamo in grado di uscire completamente da noi stessi. Il nostro stile, come strumentisti, è sostanzialmente quello. Mantenere lo stesso produttore finirebbe per limitare ulteriormente le nostre possibilità. Il fonico compie delle scelte fondamentali, che rappresentano la sua interpretazione della nostra musica. Con Ivan registravamo in digitale. Giulio invece ha preferito lavorare in presa diretta, su nastro. A posteriori sembra ovvio che Favero fosse la persona adatta per supportarci lungo la strada che abbiamo scelto di percorrere. Ma in realtà abbiamo voluto aspettare l’occasione giusta prima di collaborare con lui. E ti dirò di più, non era assolutamente scontato che la produzione di Giulio ci avrebbe portato ad approdare su Tempesta. Pensa che noi eravamo preparati a finire il disco in sei giorni, ed avevamo un budget limitato a questo tipo di produzione. Quando Giulio ha sentito i pezzi ha deciso di investire nel progetto: ci ha detto che avrebbe pagato di tasca sua ogni giorno in più necessario al mixaggio, e che il disco sarebbe uscito per Tempesta. Noi abbiamo accettato di buon grado, ma prima di entrare in studio non avevamo idea che la situazione si sarebbe evoluta in questo modo.
“Quintale” è stato definito dalla stampa il vostro disco metal. L’occasione mi fornisce l’assist per affrontare una questione che mi sembra interessante. Io da ragazzino ero un grandissimo fan dell’heavy metal. Ti parlo di metà anni ’90, quando ascoltare metal era considerata una cosa da sfigati…
Immaginati quanto era da sfigati farlo negli anni ’80, quando ero un fan io!
… beh, all’epoca i metallari venivano guardati storto dai fan dei Sonic Youth. A me heavy metal, punk ed alternative sono sempre sembrati ascolti complementari e compatibili. Di conseguenza, quando ho realizzato che un gruppo come il vostro – rispettato nel circuito indipendente in virtù del carico intellettuale che si porta dietro – stava rivisitando un genere che considero il non plus ultra del nazionalpopolare, sono letteralmente impazzito!
Ti ringrazio, mi fa molto piacere sentirtelo dire.
Il metal mi sembra un filone che può fornire intuizioni interessanti a livello musicale, e ho sempre sperato in una sua legittimazione all’interno dei circuiti alternativi. Qualche giorno fa ero in macchina con un amico, ascoltavamo “Kill ‘Em All” a tutto volume. Era una vita che non sentivo quel disco, e mi sono ritrovato a pensare che – nonostante l’immaturità tipica di un’opera prima – è davvero un prodotto eccezionale.
Concordo. Pensa che Kill ‘Em All l’ho comprato quando è uscito, nel 1983. Il mio spirito è rimasto sostanzialmente lo stesso di allora. Mi fa piacere che persone come te riescano a coglierlo. Visto che siamo a Firenze ti faccio notare un parallelismo piuttosto bizzaro. All’epoca di Dante Alighieri la lingua ufficiale degli intellettuali era il latino. Non era assolutamente scontato che lui scegliesse di scrivere in volgare. La critica dell’epoca fu anzi piuttosto scettica riguardo alla sua produzione in lingua volgare. Beh, allo stesso modo io ho deciso di utilizzare un linguaggio nazionalpopolare, come tu lo definisci, per smantellare quelle che da molti venivano interpretate come scelte intellettualistiche. A me è sempre sembrato evidente che la nostra musica rimestasse nel torbido, e credo che quanti ci seguono con passione da tempo ne siano consapevoli. L’abbiamo sempre dichiarato apertamente: il nostro è blues andato a male, lasciato a marcire in cantina. Niente di più, e probabilmente niente di meno. Non abbiamo un approccio da gruppo di ricerca o da presunta avanguardia, come spesso ci hanno definiti. E questo per un motivo molto semplice: l’avanguardia non si pone come obbiettivo quello di produrre canzoni. Che al contrario è sempre stato il mio obbiettivo. Forse ho mischiato un po’ le carte in tavola, ma ho sempre scritto semplici canzoni. Non ho mai prodotto dischi di fischi, di frulli di passeri, di scorregge di angeli, di radio che sbottano, di civette che trottano. Quello che ho fatto è sotto gli occhi di tutti, e parla da sé.
Parlando di scrivere canzoni, un pezzo come Fessura mi ha affascinato molto, proprio per la sua semplicità. Nel descriverlo sono stato anche un po’ provocatorio, paragonandolo a certi brani dei Litfiba o di Ligabue…
(Qui Succi strabuzza gli occhi per un attimo, ma si riprende in maniera molto signorile). Beh, mi fai un gran complimento, perchè quelli sono brani che sono entrati nella vita di tutti.
Mi sembra un tentativo esplicito di arrivare a qualcosa che sia una bella canzone e basta, senza la protezione di schermi concettuali o roba del genere.
In passato ho sempre scelto di non ripetere determinate parti nei brani che scrivevo, parti che pure avrebbero potuto funzionare benissimo come ritornelli. Per una mia forma di perversione ho deciso di rifuggire l’ovvio, o forse l’ho fatto solo perchè mi annoio in fretta. Il processo per arrivare a Fessura è stato dunque molto lungo. La canzone si basa su un giro di accordi dalla semplicità disarmante. Volevo che anche il testo fosse altrettanto semplice. E che in qualche modo contenesse il germe che andava a mutare qualcosa nella pancia di qualcuno.
Mi sembra una scelta che presuppone ben più palle del passaggio al metal.
Beh, vediamo se me ne crescerà mai una terza, allora!
Foto di Bianca Greco






