venerdì, Aprile 19, 2024

Adriano Modica – La sedia (Cardio a dinamo, 2012)

Credo che l’unica regola cui ogni cantautore debba inesorabilmente piegarsi sia quella di non prescindere mai dall’urgenza di avere qualcosa da raccontare. Non cedere, insomma, a quel genere di ansia che, perniciosa e maldestra, possa spingerlo a scrivere dischi, nonostante tutto. Un mostro che, stretto tra le mura di una cameretta, si nutre di fallaci apatie mentre riempie gli scaffali di roba che, probabilmente, nessuno ha mai ascoltato né, forse, ascolterà. Nulla di quanto abbia a che fare insomma con Adriano Modica, a giudicare dallo spessore di un lavoro così intenso e credibile come questo La sedia.
Ormai definitivamente compiuta la traiettoria di allontanamento dall’imprinting parentiano, il cantautore calabrese tesse, così, il suo album migliore, l’ultimo di una trilogia che lo consacra, di fatto, tra gli esperimenti più interessanti del nuovo cantautorato. Nulla di lezioso e svenevole, nemmeno quando l’iniziale Alieni prova a giocare con la forma canzone, dilatandone il senso come in un gioco al rimpiattino a cui sono invitati l’acume di Alessandro Fiori, il genio di Saluti da Saturno e la leggerezza di Paletti, mentre lì fuori, nel mondo dei Barbapapà dove “…la pioggia risale il vetro…”, “…alla radio qualcuno sta provando a salvare l’umanità…” tra chitarre esotiche e godibilissimi cammei psichedelici.
Un viaggio tra i ricordi di città da odiare, amare, comprendere, detestare per poi amare e odiare di nuovo (Almeno il cielo è sempre uguale, Il divano) in un vaticinio di ammennicoli acustici che riempiono l’anima di crescendo epici, sontuosi, cazzutissimi (Che mi dai, L’albero delle mollette). Modica emoziona, stupisce, inorgoglisce, sussurra ninne nanna su incantevoli arpeggi folk (Alluminio, L’albero delle mollette), con garbo e dolcezza, quasi come se raccontasse, da bambino a bambino, quanto è cambiato il mondo, o quanto è rimasto uguale (perché siamo noi a essere cambiati), prima di farsi serio in Il bastone e la scala, Stelle scalze e Ninna nanna per Lulù, con quel repertorio di orchestrazioni caposseliane e quei deliri rapsodici che ci ricordano, così da vicino, quell’altro geniale calabrese quale fu Rino Gaetano.
Rigorosamente freak (c’era una volta a Pietrastorta) ma…al punto giusto, completo, a tratti commovente. Cani che abbaiano in lontananza, uccellini che cinguettano, onde del mare che spezzano la loro corsa sull’arenile per celebrare, infine, uno dei paesaggi più belli che la natura abbia potuto donarci. Non ci si abituerà mai al valore delle cose finché esse riceveranno così tanta cura per essere belle. Adesso sono già migliore di ieri.

 

 

Francesco Cipriano
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Francesco Cipriano classe 1975, suona da molto tempo e scrive di musica.

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