giovedì, Dicembre 12, 2024

Train To Narvik al Lago Film Fest XII #lagomusicfest – folk ma dinamico, l’intervista

Train to Narvik è il moniker dietro al quale si cela Emiliano Fassina, uno degli ospiti del Lago Music Fest, il contenitore musicale del Lago Film Festival, kermesse di cortometraggi e documentari attiva da dodici edizioni che pone particolare attenzione anche alla scena musicale indipendente italiana oltre a svariate declinazioni delle arti performative. Emiliano si esibirà nella bellissima cornice di Revine Lago (Tv) il prossimo 23 luglio con il suo progetto tra folk e dream pop influenzato dal songwriting statunitense coevo, ma attento alla scrittura di autori come Nick Drake ed Elliott Smith. Semplice e diretta, la sua musica racconta storie minime mettendole in relazione con la bellezza del paesaggio. “Homesickness” è il suo primo crepuscolare lavoro totalmente autoprodotto e diffuso in forma digitale attraverso bandcamp. La promozione di queste canzoni condurrà Emiliano all’incisione del primo album da studio previsto per la seconda metà del 2016.

Gli abbiamo fatto alcune domande in occasione della sua esibizione al Lago Film Fest

Prima di tutto puoi dirci dove conduce realmente questo treno per Narvik e perché hai scelto una città tra le più fredde della contea Norvegese di Nordland per definire il tuo progetto?

Nell’inverno di 5 anni fa intrapresi un breve viaggio in Svezia. Da Stoccolma, decisi di andare ad Abisko, un un paesino di 80 abitanti nella Lapponia svedese a “cacciare” aurore boreali. Il treno che dovevo prendere era proprio quello con destinazione Narvik a cui però non sono mai arrivato, sebbene ci sia andato vicino. Da Abisko infatti, il confine norvegese dista solo una quarantina di chilometri. E per qualche strana ragione, quell’insegna alla stazione con scritto “Train to Narvik”, mi è sempre rimasta impressa. Mi regala una sensazione quasi nostalgica per quel paese a ridosso dell’Ofotfjord, e che il mio istinto dice dovrò raggiungere un giorno. Quindi non condurrà altro che lì!

Homesickness è la tua prima raccolta di canzoni completamente autoprodotta, una sorta di prova generale prima di curare il tuo primo ed effettivo album in studio. Ci spieghi i motivi di questa scelta e quali saranno le differenze tra questa produzione e la prossima?

Mi ritrovavo spesso a casa a strimpellare la chitarra acustica sul letto per il puro piacere di farlo, e queste canzoni sono semplicemente venute fuori. Le ho registrate per me, senza ambizione o pretesa alcuna, pensando che comunque sarebbe stato bello avere qualcosa da ricordare un giorno. Col senno di poi lo reputo un lavoro onesto per ciò che significa per me, ma non all’altezza di essere messo in vetrina, poiché ha dei limiti evidenti. Ma fa parte della mia persona e ci son legato. La produzione in corso invece, sarà caratterizzata sì da un feeling acustico e introspettivo, ma alcuni brani vedranno l’utilizzo di una session band vera e propria, oltre ad archi, sintetizzatori, bassi, qualche drum machine quà e là. In parole povere sarà più orchestrato e soprattutto vario, pur mantenendo un’impronta minimale e profonda; sarà un album basato su un concept che ho ideato, ma che per ora preferisco non svelare. Sono molto curioso e per ora soddisfatto di ciò che ne sta uscendo! Speriamo in bene!

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Il tuo è un folk minimale dalle caratteristiche fortemente introspettive. Pianoforte, chitarra acustica, interventi miratissimi di tastiera. Quanto è importante per te creare una relazione diretta tra interno ed esterno, intimità e paesaggio, nella scrittura dei tuoi brani?

E’ importantissimo. Spesso i miei testi sono più evocativi che narrativi circa episodi di vita o esperienze personali. Ci sono anche quelli, ma sono più i voli pindarici che crea la mia testa, spesso con associazioni tra sensazioni che provo e luoghi anche immaginari. E’ una cosa che mi capita mille volte al giorno dandomi una sorta di pace interiore (nel bene e nel male) e mi aiuta a individuare meglio ciò che voglio sia il risultato finale; una questione di come sapersi immedesimare nel sottile filo che divide sogno e realtà. E’ come se l’immagine dell’esterno sia un’estensione della mia introspezione, un mondo dentro un mondo diametralmente opposto.

La tradizione a cui preferisci riferirti, se c’è, è quella statunitense o è in qualche modo connessa alla scuola cantautorale europea, dal Nord fino alla Francia, passando per l’Italia?

Diciamo che è per induzione quella americana, anche se devo ammettere di non essere un particolare fan del folk tradizionale. Preferisco il dinamismo di quello moderno. D’altra parte però, mi incuriosisce molto il panorama europeo non tanto dei cantautori, quanto di quegli artisti che miscelano atmosfere lievemente elettroniche a voci intime e introverse. Quasi fosse un nuovo tipo di “cantautorato 2.0” che spesso si scopre per caso trattandosi di artisti semi-sconosciuti o che brancolano nell’underground. Dell’Italia stimo moltissimo i mostri sacri della nostra tradizione folcloristica, ma non hanno molto a che fare con la mia musica, e per quanto riguarda la nuova ondata di nuovi cantautori della nostra penisola, devo dire che non mi ha mai entusiasmato particolarmente. Poi so di essere molto difficile io a livello di gusti.

Al di là di Nick Drake, Elliot Smith e Damien Rice, che citi tra le tue influenze principali anche attraverso il profilo bandcamp, ascoltando la tua musica abbiamo pensato in certi casi alla relazione tra ambient e folk, per come si configurava nei primi dischi degli American Music Club. Ti ritrovi anche in quei territori?

Non propriamente nei territori degli American Music Club, ma di certo il legame tra folk e ambient è un elemento che mi affascina moltissimo. E’ proprio ciò che sto cercando di ricreare nel mio nuovo album, diffondendo sensazioni non solo tramite le parole, ma anche attraverso paesaggi sonori delicati e sospesi nel vuoto. Un album che mi ha aiutato moltissimo a concepire questo tipo di approccio verso le nuove canzoni è stato “Carrie & Lowell” di Sufjan Stevens, mentre nelle canzoni di Homesickness devo dire che questa relazione tra ambient e folk, che è molto marginale, è venuta da sé, senza rimandi volontari ad altri grandi della musica.

Come mai hai scelto una cover come Lunga attesa dei Marlene Kuntz in una tracklist interamente cantata in inglese e con riferimenti molto lontani da quelli della band di Cuneo?

Quella cover è frutto di una sorta di “gioco-concorso” che i Marlene Kuntz avevano indetto per l’uscita del loro ultimo lavoro. Loro davano il testo di Lunga Attesa a chiunque aveva la possibilità di arrangiarlo secondo il proprio gusto. Tra le oltre 300 versione arrivate, i Marlene ne avrebbero scelte circa una trentina di loro gradimento che avrebbero poi pubblicato nella loro pagina Facebook come “canzone della sera”. Tra le varie hanno scelto pure la mia, che sembra sia stata apprezzata anche da gente sconosciuta. Certo, non mi ha dato notorietà ed è stata solo una piccola soddisfazione personale fine a se stessa, ma puoi immaginare che tutto ciò è stato per me motivo di felicità. Quindi ho pensato fosse carino pubblicarla e metterla in free download. La musica di Train to Narvik, non ha comunque alcun riferimento con quella della band di Cuneo, anche se ho ascoltato e amato moltissimo i loro primi lavori.

Puoi raccontarci cosa ti aspetti dal pubblico del Lago Film Fest e da una location così particolare; il tuo particolare approccio al folk si sposerà con l’ambiente lacustre?

Me lo auguro vivamente. La scelta della mia candidatura al Lago Film Fest (che ringrazio di cuore per la possibilità) è nata proprio dalla particolarità del luogo, che ho avuto il piacere di visitare l’anno scorso sempre in occasione del festival. Ho da subito pensato che il lago, quel piccolo borgo e le colline verdi tutte attorno, avrebbero delineato uno scenario perfetto per il mio progetto e per le sensazioni che quel posto mi ha lasciato. E spero sia una cosa che anche il pubblico potrà percepire. E’ sempre molto difficile trovare spazi per suonare al giorno d’oggi, e lo è anche molto di più se, come nel mio caso, si esce da soli con chitarra e voce. La soglia dell’attenzione del pubblico di questi tempi è ai minimi storici, quindi hai sempre il timore di annoiare, soprattutto per uno come me che è paranoico per definizione. E’ il motivo per cui in futuro uscirò con altri musicisti a supporto. Credo però che al Lago Film Fest dove ci sono molti artisti e amanti dell’arte, probabilmente non ci saranno di questi problemi, perché questo tipo di persone hanno una sensibilità e curiosità oltre la normalità. Spero di lasciare qualcosa di positivo a tutti coloro che si fermeranno, anche solo per ascoltare una canzone! A me basta questo.

Rachele Pollastrini
Rachele Pollastrini
Rachele Pollastrini è curatrice della sezione corti per il Lucca Film Festival. Scrive di Cinema e Musica

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