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Alela Diane, la foto intervista @ indie-eye.it – Roma, 17 Novembre 2011

La scorsa primavera usciva Alela Diane & Wild Divine e da allora l’artista di Nevada City, California, di strade e paesi ne ha attraversati davvero tanti. Un tour lunghissimo che si conclude in Italia, a fianco dei Fleet Foxes, per tre imperdibili date. La prima in casa nostra è a Roma, all’Atlantico Live, dove una folla di Fleet-maniaci di tutte le età si raccoglie attorno al palco di buon ora con il sorriso soddisfatto di chi non aspettava altro da tempo. Sul palco Alela è in ottima compagnia: Big T e Little T, così chiama il padre Tom Menig e il marito Tom Bevitori, il cui cognome, ci dice lei a inizio concerto “A voi italiani dovrebbe far ridere”. L’armonia del trio è palpabile. Un’atmosfera pacata cala attorno alla voce elegante di Alela, performer appassionata che pur tenendo a cuore le proprie radici, sembra proprio aver trovato in questa nuova veste country-folk, lontana dai tormenti degli esordi, la sua giusta misura, una dimensione sospesa e sognante che ammalia il pubblico fin dalle prime note. La scaletta si divide principalmente tra i nuovi pezzi e gli intimismi del penultimo To Be Still. Il buon Tom Menig suona quasi in preda all’estasi (difficile immaginarlo nella sua cover band dei Grateful Dead!), Alela canta ad occhi chiusi, di tanto in tanto fa capolino la batteria. I quaranta minuti scorrono fin troppo veloci, la perfezione di The Wind a farla da padrona, e in un batter d’occhio il palco si prepara alla gloriosa esibizione dei Fleet Foxes. Incontriamo Alela nei camerini al termine del suo concerto: ci facciamo strada nel dietro le quinte, un saluto fugace del marito, i Fleet Foxes che gironzolano a destra e a manca. Eccola lì, rossetto fiammante, rannicchiata su un divanetto ad accoglierci con un sorriso infinito. New Weird America? Neanche per sogno.

 

Ciao Alela, come stai? Come è andato questo tour?

Uh, sto molto bene. Abbiamo quasi finito… Quest’ultimo è stato davvero un lungo tour, credo più o meno cinquantaquattro date. Siamo partiti il 30 Settembre e torneremo a casuccia Lunedì prossimo.

La tua reputazione di “nostalgica di casa” ti precede.

[Ride] Assolutamente vero. Mi piace molto suonare, ovviamente, ma non vedo l’ora di tornare a casa!

Anche se una parte di casa è con te. Com’è andare in tour con tuo marito e tuo padre?

Ormai è una combinazione che conosco bene, forse perché non ho suonato poi così a lungo senza di loro. Mi trovo molto bene, è il migliore supporto che io possa avere. La vita on the road tende ad essere molto stancante e a volte mi consuma. Avere mio marito e mio padre con me mi aiuta molto a superare le difficoltà. Poiché con ognuno di loro ho un rapporto consolidato e di piena confidenza, non scattano dinamiche strane, impreviste come può accadere con persone esterne. Stare insieme funziona davvero bene per noi.

Per il tuo ultimo album hai anche scritto dei pezzi con Tom [Bevitori]. Come avete lavorato?

Ci ha messo decisamente alla prova. In generale la scrittura a due dei brani è iniziata naturalmente, girando per casa e iniziando a collaborare dal nulla, per caso. Tutti e due siamo molto curiosi di scoprire cosa possa nascere da un momento all’altro, mettendo insieme le nostre idee. A volte io ho un’idea e lui non è d’accordo o viceversa, il che non può essere che stimolante. Quando è lui a suonare la chitarra a volte spuntano delle melodie cui non avrei mai pensato o che vanno in una direzione completamente diversa. Mi ha spinto a vedere le cose in modo nuovo e in quanto artista non posso che apprezzare il cambiamento, quelle piccole cose che ti portano a cambiare.

Come è nato il nome Wild Divine per la nuova configurazione del “gruppo”?

Mentre eravamo in tour abbiamo scarabocchiato su dei pezzi di carta un sacco di nomi a caso da dare alla band. Wild Divine è nato del tutto casualmente, solo dopo mi sono chiesta davvero che cosa potesse significare per me. Ha a che fare con l’ignoto e con tutte quelle cose che non riusciamo a spiegarci. L’aggettivo “selvaggio” non fa che rendere “divino” ancora più inspiegabile.

I tuoi testi vengono spesso associati a un respiro universale, alla descrizione della natura e di sentimenti comuni. Leggendoli attentamente sembra invece che siano più legati ad avvenimenti e persone della tua vita reale. La tua scrittura è più finzionale o più radicata nella tua esperienza diretta?

Tutti i testi che ho scritto finora sono più radicati nella mia esperienza diretta che finzionali. Il modo in cui li sviluppo o li interpreto li porta forse in territori più immaginativi. Quando descrivo le persone che incontro o che fanno parte della mia vita può capitare che li metta in uno spazio immaginario o che infioretti un po’ le cose [Ride]. Ma non sono mai personaggi creati dal nulla, sono reali. C’è una storia dietro ogni canzone. Per me c’è sempre un motivo dietro alla scrittura di un pezzo e non c’è una volta in cui non faccia un piccolo riferimento a un posto in cui sono stata o a una persona che mi è cara o che mi ha incuriosito. Credo che nell’ultimo album questo sia ancora più evidente che in passato.

Il personaggio di Desire è piuttosto curioso. Dici: “Un’altra città chiama il suo nome / dove il suo clan oscuro l’aspetta”. Puoi dirci chi è?

Mmm…

Ok. Niente da fare.

È una persona che abbiamo incontrato… [Finge di quardare altrove]

È una cantante? Ci ho azzeccato?

È decisamente una cantante. Penso sarebbe molto cattivo rivelare chi è! [Risata grassa]

Ho un paio di domande riguardo il rapporto tra la tradizione e il nuovo. Riascoltando la tua discografia da Forest Parade e Pirate’s Gospel balza subito all’orecchio la connessione dei tuoi primi lavori con la tradizione folk e bluegrass

Hai sentito Forest Parade?

Già.

Oddio! Quel disco non l’ha ascoltato anima viva.

Ammetto di non aver trovato un modo ortodosso per procurarmelo.

Tranquillo, non esiste! L’ho realizzato con un amico e ne ho masterizzate qualcosa come cento copie confezionate in buste di carta, di cui due sono a casa mia, quindi… Qualcuno a Nevada City potrebbe averne una copia, ma di fatto si trova su internet. Penso che potrei renderlo disponibile sul mio sito un domani. Le canzoni sono piuttosto delicate e graziose, sono le prime che ho scritto, eppure credo qualcuno potrebbe apprezzarle. Di fatto documenta le mie origini e credo potrebbe essere interessante per gli ascoltatori guardare indietro nel passato. Tornando alla tua domanda. Sono cresciuta in una minuscola cittadina  in California e ne ho assorbito le tradizioni. Una cosa che ho ereditato è il rapporto con la natura, il descrivere tramite metafore naturalistiche.

Quando uscì The Pirate’s Gospel in brevissimo tempo il tuo nome rimbalzò nell’etichetta New Weird America assieme a quelli della tua concittadina Joanna Newsom, di Devendra Banhart, Mariee Sioux, Josephine Foster ecc. Il termine viene usato ancora adesso, ma ricordo che proprio in quel periodo aveva un grande impatto. Dava l’impressione che fosse quasi un “movimento”, qualcosa che vi rendeva coesi nel vostro rispolverare la tradizione folk e reinventarla. Tu che percezione ne avevi?

Uhm, penso sia stato strano per tutti noi essere accomunati sotto una stessa dicitura. Non credo ci si sentisse parte di un movimento e penso servisse più alla stampa che a noi, ad esser sinceri. Era strano, effettivamente. Mariee Sioux è una delle mie migliori amiche, la conosco da quando ho quattro anni o addirittura meno. I nostri genitori suonavano spesso insieme quando eravamo piccole. Anche Joanna, come sai, è di Nevada City… quindi più che un movimento nascente era in buona parte semplicemente gente che veniva dagli stessi posti, cui capitava di esprimersi con lo stesso linguaggio, usando quel tipo di metafore naturalistiche di cui parlavo prima. Nuotavamo nello stesso fiume, ci aggiravamo da bambine nella stessa foresta. A parte la provenienza ha contribuito l’uscita simultanea di molti dei nostri dischi e di fatto il successo di Joanna. Ho incontrato due volte Devendra di passaggio. Non mi pareva proprio un movimento. [Risata liberatoria]

Crolla un mito.

Ognuno faceva le sue cose. Io e Mariee abbiamo cantato insieme qualche volta, io ho suonato con Joanna proprio agli inizi. Pensa, la prima volta che ho venduto Forest Parade aprivo per Joanna e lei ancora non aveva pubblicato il primo disco con Drag City. Era moooolto tempo fa! Mancava un po’ la componente collettiva, lo stare insieme che di fatto l’avrebbe reso un movimento.

L’altra domanda sul vecchio e il nuovo riguarda le tue influenze. Hai detto spesso che scavi molto nel passato, ma fai fatica ad ascoltare le nuove leve…

Il problema tra me e la musica è che mi sento sopraffatta. C’è così tanto da ascoltare. Se mi metto ad ascoltare qualcosa mi ci devo focalizzare completamente, dismettere qualsiasi altra attività che possa distrarmi. Per esempio non ascolto quasi mai nulla quando sono a casa. Mi capita di concentrarmi e apprezzare di più la musica vecchia, quella riesco quasi sempre a sentirla davvero. Ci sono alcuni, pochi, artisti contemporanei che ho scoperto. L’anno scorso mi sono aperta un po’ di più a quello che succede nella scena musicale di oggi, perché sono stata con la testa tra le nuvole per troppo tempo. Mi piacciono entrambi i dischi dei Fleet Foxes, ovviamente, e credo che le loro performance dal vivo siano pazzesche. Gli anni Settanta restano comunque il mio periodo preferito. Credo che quella che ai tempi veniva considerata musica pop, quella che tutti amavano, non può essere lontanamente paragonata alla musica che ascolta la massa oggigiorno. Credo che in parte la mia sia frustrazione, come quando sono in un hotel, accendo MTV e mi dico “Cos’è questa merda?”. Non c’è cuore, è un prodotto di consumo, niente di più. Trovo assurdo che la musica abbia potuto disconnettersi a tal punto da… ciò che la musica dovrebbe essere.

Per questo abbiamo bisogno di riscoprire le perle del passato, dici. Come è accaduto con Vashti Bunyan qualche anno fa.

Esatto. Penso che tra tutte le pop star di adesso solo Beyoncé sia un po’ interessante. Il mondo è diviso tra quella sfera e la sfera in cui ci sono i Fleet Foxes e così via… lo trovo assurdo.

La tua musica ha cambiato direzione negli anni e forse è la tua voce ad aver subito la trasformazione più notevole. Come percepisci questo cambiamento? Quando hai deciso di abbandonare, ad esempio, le sperimentazioni di The Pirate’s Gospel?

Non ho mai riascoltato tutti gli album in fila come hai fatto tu, il cambiamento deve sentirsi eccome. Ti posso dire che in Forest Parade la mia voce era timida e contenuta, rispecchiava bene quel momento. Il disco è stato fatto tre mesi dopo i miei primi passi con la chitarra, quindi non suono benissimo, è piuttosto semplice. La mia voce si è evoluta di pari passo con le mie capacità nel suonare il mio strumento. In Pirate’s Gospel la mia chitarra è decisamente migliore, ma si sente che ancora stavo combattendo. Con la voce esploravo. Volevo capire cosa potessi fare con la mia vocalità, sperimentavo molto, soprattutto con le note alte. Con gli ultimi due dischi ho cercato invece di mettere a frutto quello che ho imparato, di capire fin dove potevo arrivare e, ovviamente, che cosa mi piace fare. Quando riascolto i dischi vecchi, specie Pirate’s Gospel, penso: “Oh, Dio, ma che stavo facendo!”. Non mi piace come suona.

Ma come!?

Ebbene sì. Ai tempi era importante che facessi quei tentativi e sembrava la cosa giusta da fare, ma riascoltandoli capisco che ci sono delle cose che adesso non farei mai. C’è una parte consapevole dunque di questo cambiamento, l’altra è una naturale evoluzione, una crescita. Ogni volta che lavori a un nuovo disco finisci per documentare quello che ti sta accadendo in quel momento ed è giusto sì sperimentare, ma anche rispettare quello che credi sia la cosa più adatta a te. Credo che per tutti i cantanti sia fondamentale abbracciare il cambiamento: hai il dono di trovarti in viaggio con la tua voce e non smetti mai di imparare e di conoscerla meglio. È un po’ come prepararsi ad una maratona, all’inizio fai una fatica micidiale, poi ti alleni e il tuo corpo migliora finché non corri veloce.

Ti capita mai dal vivo di sentire l’impulso di cantare quei pezzi di nuovo in quel modo? 

Ti dirò, a volte capita… quando sono in una stanza da sola, o quando scrivo un pezzo, escono delle melodie un po’ pazzoidi e le accompagno con una linea vocale più sperimentale. Questi elementi però si vanno smussando nella fase di lavorazione. Credo che non sia solo un processo, ma anche un dare valore a quello che stai facendo, a te stessa. Anche ascoltando il progresso di altri artisti mi capita di pensare che fare e rifare le stesse cose non solo sia noioso, ma improduttivo. Alla fine non resta che tentare di fare del proprio meglio.

 

Alela Diane in rete

Giuseppe Zevolli
Giuseppe Zevolli
Nato a Bergamo, Giuseppe si trasferisce a Roma, dove inizia a scrivere di musica per Indie-Eye. Vive a Londra dove si divide tra giornalismo ed accademia.

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