venerdì, Maggio 23, 2025

Herself, l’intervista: “morire al mondo”

Ok… Passiamo oltre. Come hai conosciuto Amaury Cambuzat? Sei stato fan degli Ulan Bator?

Affermativo. Sono stato un grandissimo fan di Cambuzat e soci. Specialmente Ego: Echo degli Ulan Bator, che per me costituisce un picco irraggiungibile, per forma e sostanza. Con Amaury Cambuzat abbiamo per molto tempo militato in Jestrai Records, la mia precedente etichetta, che è stata anche l’etichetta degli Ulan Bator. Quindi un primo approccio risale a quel tempo. Ricordo che qualcuno gli fece ascoltare God Is A Major e che gli piacque. Abbiamo spesso condiviso gli stessi palchi. Ma è in DeAmbula che si è concretizzata la nostra collaborazione. Gli è piaciuto il mio lavoro ed è stato quasi spontaneo lavorarci un po’ su assieme. Inutile dire che ne sono felice e orgoglioso. Mi ha anche invitato a fare delle serate con lui, a suonare roba degli Ulan Bator. Mi ha emozionato. E’ una persona gentile oltre che un ottimo artista. E per me l’opzione umana straborda sempre su quella artistica. La gentilezza è tra le qualità che più apprezzo in un essere umano.

Questo mi conduce a chiederti quali siano le tue preferenze e/o influenze. Anche perché, mai come per Herself, esistono tante opinioni diverse e contraddittorie a riguardo.

Bè, è una domanda interessante. Ascolto musica da sempre, con una forte preponderanza per il rock in quasi tutte le sue declinazioni. Per sommi capi: da ragazzino ascoltavo AC/DC, molta roba metal e hardcore; poi ho avuto l’infatuazione glam e post-punk e nell’ultima fase post-adolescenziale, mi sono trovato invischiato nella new-wave e nel folk britannico di scuola Waterboys e un po’ nello shoegaze tra Jesus and Mary Chain e The Telescopes. Senza considerare le ultime decadi tra Jim O’ Rourke, Bonnie Prince Billy e Michael Gira da solista. Anche qui, non la finiremmo più. Sarà forse per l’eclettismo dei miei ascolti che nella mia musica ognuno finisce per rintracciare un po’ di tutto. D’altro canto, ciò che un ascoltatore ritrova in un disco, fa più parte del suo personale background che altro. Una specie di radiografia proditoria. Come dire, che ciò che senti, sta sempre dentro di te e non nell’opera che stai ascoltando. Certo, mi ha disorientato che mi abbiano accostato quasi sempre automaticamente al compianto e per altro bravissimo Mark Linkous (del quale apprezzo la sensibilità descrittiva, ma che assolutamente non annovero tra le mie influenze, anche perché l’ho scoperto molto tardi). Ma la critica spesso agisce per pigrizia associativa costituzionale.

Sai, a tal proposito, ho sempre pensato che il problema stia nel fatto che in Italia, malgrado le tante gloriose realtà storiche e presenti,  non sia mai esistito un vero e proprio, come dire, immaginario indie, fatto non solo di musica, ma anche di pensiero, d’estetica. E questa mancanza di radici salde, temo che alla fine, ci conduca tutti a Sanremo (anche solo idealmente).

Guarda, col tempo ho finito per convincermi che le nostre salde radici, siano, ahimè, proprio quelle che conducono a Sanremo. E con ciò, non intendo minimamente legittimare il maledetto carrozzone. D’altronde, l’immaginario indie è un ché d’immateriale, un prodotto d’importazione, se non un epifenomeno di colonizzazione anglo-americana tout court. Il nostro indipendente mi sembra di fatto un pallido riflesso formale di quello che viene da fuori; poco più che segmentazione di trend passeggeri, e come ben dici, un pensiero senza etica, non può in alcun modo assurgere ad un equilibrio estetico. Sono processi storici lenti e spasmodici. (continua nella pagina successiva…)

Alessio Bosco
Alessio Bosco
Alessio Bosco - Suona, studia storia dell'arte, scrive di musica e cinema.

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