sabato, Ottobre 5, 2024

David Bowie – Blackstar: Oh, se potessi rinascere un’altra volta!

Bowie sembra aver intuito, con una prassi esperenziale posseduta dal senso di molteplicità e ipermediazione, che la discontinuità tra un media e l'altro consente a chiunque di prendere un pezzo della "stella" e decontestualizzarla tra diverse espressioni mediali, adesso anche private, assumendone il controllo. Da una parte le mille incarnazioni dell'artista e i molteplici dispositivi che mette in correlazione, dall'altra la possibilità che lo spettatore/ascoltatore/fruitore compia un percorso di consapevolezza proprio in virtù di questa frammentazione. Verso la galassia Blackstar

Information is a semantic chameleon” (Rene Thom)

“Son le cose
che pensano ed hanno di te
sentimento. esse t’amano e non io” (Battisti-Panella)

Nell’ottobre del 2013 David Bowie realizza personalmente il video per il remix di Love is lost firmato da James Murphy. La clip viene annunciata online alla fine dello stesso mese con una news pubblicata su davidbowie.com subito dopo la premiere al Barclaycard Mercury Prize. Il comunicato, oltre a giustificare il lancio anticipato per il contenuto “gotico” del tutto pertinente con la notte di Halloween, descrive brevemente i dettagli di lavorazione. Assistito dalla fedele Coco Schwab per la continuity e dall’occhio attento di Jimmy King, Bowie filma e post produce per l’intero week end utilizzando una parte del suo ufficio di Manhattan e due pupazzi di grande formato. Il primo burattino costruito sulla base del personaggio che aveva accompagnato tutta la promozione di Scary Monsters, incluso il video di Ashes to Ashes, il secondo modellato sull’aspetto del Thin White Duke.

Il costo dichiarato è di 12.99 dollari, quello della chiavetta usb utilizzata per memorizzare il lavoro, ma se la news si riferisce ai due pupazzi come parte dell’archivio di Bowie, questi in realtà provengono dagli oggetti di scena creati dal Jim Henson’s Creature Shop di Los Angeles per il video di The Pretty Things Are Going to Hell diretto da Dom & Nic e filmato nel settembre del 1999. I pupazzi sono in tutto quattro e nello storyboard originale inseguono e maltrattano Bowie con l’intenzione di ucciderlo, animati da alcuni dei burattinai più quotati tra quelli che avevano collaborato con la factory di Henson; tra questi anche Rick Lyon, che si occupa del burattino Ziggy.

Il video non verrà mai diffuso e sarà proprio Bowie ad annunciarlo nell’ottobre del 2000 con una live chat dove racconterà divergenze di intenti e aspettative rispetto all’idea che i due registi si erano fatti. A frenarli il fatto che i simulacri bowiani fossero troppo aderenti all’essenza del burattino, soprattutto in relazione all’oscurità esteuropea che avrebbero voluto raggiungere. Bowie al contrario definisce il video come assolutamente comico e a conferma delle sue intenzioni parodiche ci sono una serie di fonti, tra cui alcune news pubblicate da Jam durante la lavorazione e che annunciano il coinvolgimento di Chad Richardson, musicista e attore canadese in scena a Broadway proprio in quei giorni, per una versione del musical “Rent”.  A Richardson viene affidata la parte di un alter ego giovane dell’artista britannico per un gioco di specchi che sulla carta ricorda quello di altre myse en abyme, dei quadri che ne incorniciano altri, degli snodi tra mondi paralleli,  delle disseminazioni narrative, iconiche e mediali che attraversano tutta la carriera di Bowie.

Come in altri esperimenti incompleti tra quelli ideati dall’artista inglese, il video quasi “mai visto” di The Pretty Things are going to Hell diventa una “smagliatura nel sistema”, la replica come tema riconoscibile nelle strategie creative bowiane ma che allo stesso tempo, oltre al meccanismo metatestuale, mostra una serie di ferite, segni che sfuggono ad una lavorazione interrotta.

La versione attualmente disponibile su youtube oltre a non essere autorizzata, ha tutte le caratteristiche della copia di lavorazione “trapelata” da qualche torrent e modificata successivamente da alcuni fan attraverso una serie di inserti, un distacco dall’oggetto che si è verificato molte volte, sia nel dialogo tra Bowie e la sua fanbase, sia nell’ambito di progetti combinatori e generativi come Outside, dove impostura e flagranza documentale si intrecciano, basta pensare al clima creativo in cui vengono sviluppati i diari di Nathan Adler tra l’esperienza fatta per Q Magazine e quella per Modern Painters dove Bowie svolge un compito puntuale come critico d’arte e il cui punto di arrivo sarà un distacco ulteriore da quello stesso contesto attraverso la creazione di Nat Tate, espressionista astratto statunitense mai esistito, attivo dal 1952 fino al 1960 e inventato insieme allo scrittore William Boyd con una monografia di supporto pubblicata nel 1998.

A desiderare che il video di The Pretty Things are going to Hell diventi visibile anche attraverso una diffusione non autorizzata è lo stesso Bowie, a dimostrazione di un gioco sospeso tra cancellazione e centralità autoriale, verità e falsificazione che trova un punto d’incontro nella commedia; quando infatti spiegherà in un’intervista per Spin il senso del brano, parlerà di stand-up comedy come forma possibile per raccontare lo stato dell’arte del rock: un burlesque decrepito.

Nel video incompleto mancano i pupazzi che cercano di uccidere Bowie e di cui circolano alcune immagini, mentre rimane al centro la performance filmata sul palco del Kit Kat Club di New York, dove l’artista inglese verga e cancella alcuni disegni sulla superficie di un grande blocco per schizzi, gesto che abbiamo visto molte volte nella storia artistica di Bowie e che torna nelle immagini di Lazarus.

Quell’articolazione tra visibile e invisibile, impostura e vita, creazione e distruzione che nelle metamorfosi bowiane ha aperto la porta ai suoi detrattori nell’individuazione del plagio come prassi sistematica, è al contrario un formidabile percorso di apprendimento della coscienza che alla presunzione di una sincerità da esporre in pieno sole, sostituisce un processo creativo complesso che alterna aderenza e improvvisa distanza, rivelazione e occultamento, fuori da ogni logica binaria che indirizzi la direzione dell’attraversamento, lasciandoci lo spazio necessario per attivare il pensiero e ricostruire il nostro mondo; identitario, politico, percettivo e probabilmente anche iniziatico se lo intendiamo in quella relazione ciclica tra segreto e rivelazione che da vita al racconto e poi lo apre.

Una dimensione archetipica che non riusciamo più ad attivare nell’ipervisibilità sempre connessa della sorveglianza sociale, la cui pressione morbosa, costante, auditiva, visiva e anche tattile non ci consente di staccare il corpo dai dispositivi che ci moltiplicano, chiusi nelle nostre narrazioni.

Il percorso di Bowie è, sin dall’inizio, anche un’educazione alla presenza della morte come soglia da cui far scaturire la vita. È il dipanarsi di un processo di creazione del senso che include la sua improvvisa dispersione nel proliferare di creature fatte a pezzi, ma anche fatte di pezzi, il cui collegamento non si manifesta attraverso il vincolo con una presenza unitaria, perché la rete di rimandi accade attraverso molteplici dimensioni; lo dimostrano non solo le strategie transmediali di cui Bowie si è servito, spesso all’interno di un unico manufatto, a sua volta costituito da fammenti complessi tra segno, suono, immagine, cgi, pittura, grafica, lettering, sperimentazione digitale, ma anche i simulacri stessi dell’apparato enunciativo, un metalinguaggio che attraversa più storie della rappresentazione.  La scrittura automatica e il cut-up burroughsiano, la sintesi dell’immaginario fine ottocento nel pittore di Look Back in Anger già proiettata verso la videopittura di Nam June Paik, con il quale nel 1988 replicherà una versione poco vista del brano contenuto in Lodger per l’esperimento di televisione live  “Wrap Around the World“, tra performance e dislocazioni corpo/immagine.

Un’attitudine che Bowie insieme a David Mallet aveva già sperimentato nelle performance condivise con Klaus Nomi per il SNL del dicembre 1979, dove i costumi vengono ideati reinventando il design di Tristan Tzara e calati in uno spazio tra presenza e assenza, sfruttando la tecnologia televisiva di quegli anni e anticipando lo sviluppo dei set virtuali in una forma creativa. È proprio in queste performance che il corpo-marionetta che incorpora e allo stesso tempo separa l’immagine televisiva di Bowie-live, entrambe ricombinate nella cornice immateriale dei chroma key, connette passato e futuro in un’esperienza nomadica, la stessa che gli consentirà di immaginarsi il Pierrot-Pinocchio di Ashes To Ashes desunto da una complessa stratificazione di riferimenti e trasferimenti culturali, nello spazio possibile disegnato dai dispositivi della Quantel, prima del lancio ufficiale del Paintbox.

Il Paintbox viene lanciato ufficialmente dalla britannica Quantel nel 1981 rivoluzionando l’applicazione della computer grafica in ambito televisivo. Nell’utilizzo sistematico che ne faranno BBC e la televisione britannica prima di chiunque altro, per la produzione di bumpers e videoclip, Ashes to Ashes occupa una posizione pionieristica tracciando una linea diretta verso gli esperimenti di videopittura che “Painting with light“, la serie televisiva prodotta dalla Griffin Productions e trasmessa da BBC 2 nel 1986, affiderà agli artisti Richard Hamilton, Howard Hodgkin, Larry Rivers, Sidney Nolan, Jennifer BartlettDavid Hockney. Il Paintbox si presenta come workstation completa, che integra un tablet touchpen per agire su segni e colori. Le capacità metamorfiche del sistema oltre a consentire la combinazione di sorgenti grafiche eterogenee adatte ad interagire con la tecnica del bluescreen, permettono di cambiare i colori illimitatamente basandosi sui principi luminosi e puntando alla saturazione del colore per oscurare l’immagine più che per esaltarne la brillantezza. Il Paintbox consente in quegli anni di intervenire “al volo” sulle immagini, anticipando la prassi del disegno su tablet e consentendo la gestione di una maggiore o minore opacità dell’immagine in relazione alla pressione della penna. La cornice tecnologica è ovviamente diversa dalle possibilità attuali, ma interpreta già l’evoluzione dell’immagine digitale in termini performativi.

Tutti questi aspetti sono chiarissimi nel video ideato da Bowie-Mallet sei anni prima di “Painting with light” e concorrono a creare quel surrealismo pop che dominerà nei video musicali degli anni successivi prima che questi sostituiscano la giustapposizione di immagini illogiche con una tendenza più marcatamente narrativa. Proprio in questi termini il video di Ashes to Ashes rigetta l’uso mainstream della trasparenza televisiva servendosi di contrasti stridenti, effetti di video pittura consentiti dalla tecnologia del tempo, movimento e astrazione pensando più al cinema di Norman McLaren e Len Lye che non ai promo video del decennio precedente. In questa cornice semantica, Bowie si colloca al confine tra l’illeggibilità del segno, autobiografia e autoreferenzialità dell’universo finzionale, quello dei personaggi dismessi di volta in volta e in questo video sacrificati sulla pira funeraria; la sua presenza come narratore mette in comunicazione vita reale e finzione romanzesca avvicinandosi a quelle figure di mediazione del romanzo postmoderno di cui parla Paola Splendore ne “Il ritorno del narratore“, figure volte ad inseguire un modello mitopoietico come se fosse la costruzione progressiva della propria biografia e non il contrario.

Ma il multiverso Bowiano che entra ed esce dal proprio per crearne altri sfugge ad una “self-recorded fiction” basata sui processi di destrutturazione, come nell’Autobiography di John Barth, pur contenendola nel continuo slittamento tramolteplici identità autoriali , soppressione dei figli e del padre, fino a quella del narratore stesso:  “if anyone hears me, speaking from here inside like a sunk submariner, and has the means to my end, I pray him do us both a kindness”.

È un sincretismo vertiginoso quello che manifesta il viaggio iniziatico del Pinocchio di Collodi nel paesaggio elettronico e metafisico di Ashes to Ashes così come l’attraversamento dei set metamorfici di Paik, eventi performativi che irrompono rigenerando il contesto e producendo nuovo senso tra presenza live e non locabilità del broadcasting. Decifrabilità, (il)leggibilità illimitata come “evento che non aspetta la deliberazione, la coscienza o l’organizzazione del soggetto, né della modernità: Si decostruisce” per usare le parole di Derrida scritte al professor Toshihiko Izutsu.

Sta accadendo proprio ora con il Bowie di tutti e di nessuno, con ciò che non è: ogni cosa, e ciò che è: niente, nella disseminazione di segni che esondano dalla programmazione della macchina industriale, nei percorsi avviati dai fan di tutto il mondo sui social network, nell’impunità morbosa e necrofila della stampa di regime, nel pieno di senso ad ogni costo, nei “doverosi” omaggi, nel silenzio di alcuni, nel collezionismo post-mortem, nei percorsi transmediali che cercano di individuare tracce occulte, nelle immagini della giovane fotografa polacca Michalina Wozniak ricombinate nell’ipertesto in The villa of ormen sul quale si stanno scatenando letture di ogni genere; mondi interamente dipendenti dal soggetto.

Ma i sistemi di rappresentazione e le forme tecniche coinvolte, fisiche o liquide che siano, definiscono da sempre Bowie a partire dalla diversa combinazione di qualità nomadiche, non solo per questioni pluridisciplinari, ma anche per il modo in cui i campi di applicazione diventano mondi permeabili, introducendo quindi una caratteristica performativa che supera prima di tutto il limite tra immedesimazione ed estraniamento per privilegiare la celebrazione di un rituale sciamanico. Se ci si convince di quello che scrivono Vivan Sobchack e Laura Marks quando estendono l’esperienza spettatoriale ad altri sensi rispetto all’occhio (nel cinema, ma può valere anche nella realtà consensuale del virtuale, proprio per le sue qualità immersive) proponendo un approccio viscerale e “incarnato” alla visione, l’impatto sinestetico e multisensoriale può consentirci di immaginare un’esperienza del mondo molto vicina al trasferimento di energie rituali, generalmente associato alla performatività nello spazio teatrale.

È sempre la Sobchack a parlare di “coscienza documentale”, ovvero l’irruzione del reale nell’esperienza fenomenologica del cinema come qualità della visione che consente di superare la distinzione tra documentario e finzione. Quando questa coscienza rileva la presenza della morte, si incorpora una forma di spettatorialità che trasforma lo spazio dell’irrealtà in quello della realtà, delineando quindi una dimensione rituale che risiede tra la vita e la morte, un luogo di passaggio. È una spaccatura molto vicina alla metatestualità, presente a livelli diversi anche nei video di Ashes to Ashes, Love is Lost e Lazarus, dove le marionette assumono un ruolo centrale come figure archetipiche di transito.

Sono molte le tracce possibili che identificano nelle metamorfosi bowiane (dei personaggi, delle cornici che li contengono, dei sistemi rizomatici) un continuo scambio semantico tra meccanico, inorganico, digitale attraverso la messa al mondo, lo spossessamento e la cancellazione. Dalla reciproca influenza tra realismo e movimento meccanico nel teatro giapponese Bunraku e Kabuki, quest’ultimo ossessione estetica bowiana fin dalle esperienze condivise con Lindsay Kemp, passando per il surrealismo di Fernand Léger applicato al complesso metaverso di Outside e a quello di Earthling, i cui video girati insieme a Floria Sigismondi e Tony Oursler recuperano e applicano balletti meccanici in svariati contesti e sopratutto dentro corpi eterogenei, tra puppet animation, stop motion, body-art, Marionettentheater. Si sfiora probabilmente anche la metafisica eretica, meccanicista e (anti) razionalista del teatro di marionette di Heinrich von Kleist, concepita tra assimilazione e rifiuto della filosofia Kantiana, immaginario con cui si stabilisce un dialogo nel video di Lazarus recuperando in parallelo una commuovente conoscenza Goethiana a cui sarà necessario riferirsi, ma tenendo conto di un altro livello di lettura, quello legato alle complesse logiche di rimediazione che attraversano orizzontalmente e verticalmente la relazione di Bowie con i testi e con i media.

È al Pierrot-Pinocchio di Ashes to Ashes che spetta stabilire una cesura netta con i decenni precedenti e con quelli successivi, attivando uno di quei rituali di liberazione dal proprio passato/futuro creativo, dalle proprie auto-bio-grafie (vere, presunte, finzionali), dal proprio ego, in un avvitamento già transmediale, proprio perché la creazione e la cancellazione delle figure archetipiche di riferimento tra romanzo e dissoluzione dello stesso, possano consentire l’individuazione di uno spazio grigio tra mitologia e distacco; un’educazione al cammino verso la morte si diceva, anche per chi ne ha seguito il percorso.

Pinocchio peraltro – dice Elemire Zolla parlando del romanzo di Collodi in “Uscite dal mondo” – non è soltanto una rassegna di figure squisitamente ed esotericamente simboliche, ma contiene suggerimenti sottili su come si opera per liberarsi da se stessi, dalla propria natura di burattini utopisti, ricercatori di soluzioni umane, per rompere i propri limiti

La maschera di Pierrot in relazione alla carriera di Bowie viene analizzata nel volume “David Bowie: Critical Perspectives” curato da Eoin Devereux, Aileen Dillane e Martin J. Power all’interno di un capitolo circoscritto sostanzialmente alla produzione del video di Ashes to Ashes, attraverso il quale si cerca di ricombinare riferimenti storico-biografici e tracce culturali che possano contribuire alla codifica del nuovo contenitore iconico. Dal Pierrot In Turquoise di Lindsay Kemp, modellato in parte sul percorso storico-rappresentativo della maschera verso l’oscurità nella relazione ormai palindroma tra bianco e nero lungo tutto l’ottocento europeo, si approda all’interesse di Bowie per l’espressionismo tedesco e al modo in cui questo interseca le fasi appena precedenti e immediatamente successive alla promozione di Scary Monsters, riferendosi quindi alla versione bowiana di Alabama Song, il brano di Kurt Weill inserito come B-side per la nuova versione acustica di Space Oddity incisa nel 1978 e alla pubblicazione di Bertolt Brecht’s Baal, l’ep legato all’omonima produzione BBC 1 diretta dall’ottimo Alan Clarke (Scum, Made in Britain). È con questi presupposti che Devereux, Dillane e Power analizzano la presenza di un’influenza schoenberghiana, legata all’architettura tra declamazione e canto del Pierrot Lunaire, individuando appunto l’applicazione della “Sprechstimme” alla struttura musicale di Ashes to Ashes.

I tre autori del volume oltre a non raccontare il percorso iconografico di Pierrot dal bianco al nero, sostanzialmente aderiscono alla vulgata di un Bowie infarcito di cultura mitteleuropea senza inserirla nella confluenza di tracce (musicali, letterarie, storiche, filosofiche, biografiche, audiovisive, tecnologiche) residui, relitti, appropriazioni e cancellazioni che trapassano il 1980 con un movimento dinamico non lineare, oltre e dentro il contenitore Bowie.

Proviamo allora ad attivare altri percorsi.

La raccolta di versi Pierrot lunaire: rondels bergamasques scritta da Albert Giraud nel 1884 si situa al centro di un’evoluzione della maschera lungo tutto il secolo che identifica nel tema del doppio la distanza tra individuo e realtà; Pierrot ha già un abito nero e cerca di cancellare il riflesso di un pallido raggio di luna che si posa sul suo vestito, mentre in una raccolta successiva scritta da Giraud nel 1887 e intitolata Pierrot Narcisse, il colore dell’abito torna ad essere bianco in una conflittuale rappresentazione del doppio rovesciata allo specchio rispetto al Pierrot Lunaire; nella lotta con se stesso Pierrot muore lanciandosi contro il suo stesso riflesso e macchiando l’indumento di sangue con i frammenti di vetro.

Nel video di Ashes to Ashes il bianco e il nero vengono trattati grazie all’uso di un dispositivo della Quantel appena precedente all’immissione del Paintbox sul mercato, intensificando i valori di crominanza dello spettro per raggiungere un preciso risultato estetico. La relazione tra i colori viene soggetta ad un rovesciamento semantico ma senza invertire i livelli d’intensità dell’immagine; di fatto non è un negativo digitale, è il riflesso o il rinvio di un negativo che include il positivo, in abisso. Il nero occupa tutto il cielo. Il costume disegnato da Bowie con l’aiuto di Natasha Korniloff è un ibrido che si riferisce ad altre maschere tra cui c’è sicuramente la morfologia geometrica di Pinocchio oltre all’automatismo di alcuni movimenti, in un processo di stilizzazione che in realtà va indietro nel tempo rispetto all’ottocento francese e recupera il cappello a cono di Pedrolino ma anche lo spirito macabro di Henri de Toulouse-Lautrec nella foto “en pierrot” del 1894, ritratto mascherato che emerge dall’ombra e che assorbe le caratteristiche allucinatorie della sua arte.

Nel costume di Ashes to Ashes, contro il nero del cielo, predomina il bianco, mantenendo apparentemente una relazione filologica con le primissime origini della maschera, in realtà scomposta tra profilmico e virtuale, nei personaggi di contorno e nel paesaggio. Il doppio e l’ombra che accompagnano la storia delle rappresentazioni legate a Pierrot per tutto l’ottocento viene quindi disseminato tra i set allestiti a Beachy Head e ad Hastings e le manipolazioni consentite dal dispositivo della Quantel. L’associazione biunivoca con quello di Giraud/Schönberg è allora tanto suggestiva, culturalmente verificabile, quanto pretestuosa se si ci si limita ad isolarla come se fosse una semplice rilettura dell’espressionismo, figuriamoci un’adesione!

A dimostrazione che i testi dipanati d/al contenitore Bowie (immagini, parole, opere ed anche omissioni) procedono da sempre seguendo destinazioni orizzontali e non verticali (dall’autore verso il basso) con altrettante diramazioni lungo il percorso, testi riconfigurati, dispositivi paralleli, autorialità scambiate e anche azzerate, ci vengono in mente le fotografie-finestra che Pierrot-Pinocchio/Bowie/Major Tom mostrano durante il video di Ashes to Ashes. Il primo rispecchiamento è già un’ipermediazione, incorporamento e discontinuità (secondo la logica di Bolter e Gruisin) con lo schermo mostrato dal Pierrot-Pinocchio contenente un paesaggio simile a quello dove agisce il Pierrot con Major Tom seduto sugli scogli. Il secondo investe simmetricamente Major Tom del ruolo di narratore, aprendo una finestra-schermo dello stesso tipo, ma sull’immagine bowiana del periodo discografico precedente, un personaggio circondato dalle pareti imbottite di quella che potrebbe essere la stanza di un ospedale psichiatrico. Al netto delle considerazioni biografiche ampiamente privilegiate, invece che analizzate come testo tra altri testi, utilizzando la parola “Junkie” come connettore, è interessante il modo in cui viene frammentato il racconto (lo storyboard, i disegni, il montaggio sono tutti guidati da Bowie,  Mallet è un esecutore) all’interno di una sequenza temporale palindroma. Non solo quindi la metavisione (o la rimediazione del passato) con uno schermo-finestra che guarda al passato mitopoietico di Bowie, ma anche una seconda metavisione incorporata che volge lo sguardo verso il futuro (Major Tom dal passato osserva il futuro di Bowie).

È lo stesso Bowie che nello spazio di una sola intervista concessa ad Angus MacKinnon per NME (13 settembre 1980), quindi in una cornice differente dalle confluenze che danno vita al videoclip, ripete questo doppio sguardo fantascientifico in due momenti diversi: “Ci sono moltissimi stereotipi nel video, ma penso di averli ricombinati in modo da non farli apparire come tali, almeno nella misura in cui come sensibilità generale, emerge un certo sentimento di nostalgia per il futuro“. Verso la fine della stessa intervista Bowie, interrogato sulla presenza di Major Tom nella canzone parla al contrario di una certa nostalgia per un passato irrecuperabile: “davvero si tratta di un ode all’infanzia o se preferisci, di una filastrocca popolare“.

Sulla figura del narratore Pierrot-Pinocchio che inquadra e in qualche modo fa da dispositivo-cornice per i  personaggi di Ashes to Ashes è necessario fare una breve digressione. Nel Pierrot in Turquoise di Kemp, filmato nel ’69 dalla televisione scozzese e mandato in onda il luglio dell’anno successivo, Bowie interpreta Cloud: cantastorie, performer e connettore per tutti gli elementi emozionali che dai personaggi arrivano al pubblico. Nella piece di Kemp esegue alcuni brani da lui scritti come interludi per la vicenda che vede Pierrot uccidere l’amata Colombina dopo che questa l’ha tradito con Arlecchino. In Ashes to Ashes replica il ruolo di Cloud ma incorporandolo nel personaggio di Pierrot-Pinocchio, anch’esso rimediato dal dispositivo, con il fotografo che lo inquadra e lo scatto che ferisce, quasi ad indicare una relazione con i media ad un livello diverso rispetto alle logiche che intrecciano le narrazioni di /personaggio/discografia/biografia.

In questo avvitamento che abbiamo chiamato in più di un’occasione transmediale, ipermediale, sciamanico (per il nomadismo, anche rituale, tra un media e l’altro) sono altrettanto lucide due dichiarazioni di Bowie concesse durante alcune interviste tra il 71 e il 76, spesso tirate in ballo semplicemente per chiarire quanto la figura del Pierrot abbia attraversato il suo mondo creativo, o al limite per ribadire il solito logoro binomio arte-vita di ascendenza romantica che è in verità solo una piccola parte dell’intera questione: In “Waiting for Bowie – and finding a genius who insists he’s really a clown” titolo che già da solo ci dice quali sono le facoltà cognitive di un giornalista, Bowie risponde a Jean Rook del Daily Express in un’intervista del 5 maggio 1976: “Sono Pierrot. Sono Chiunque. Faccio teatro, solamente teatro. […..] Ciò che vedi sul palco non è sinistro. E’ semplicemente clownerie. Sono come una tela e cerco di dipingerci la verità del nostro tempo. Viso bianco, pantaloni larghi, Pierrot appunto, l’eterno clown che presenta la grande tristezza del 1976“.

Prima ancora di questa dichiarazione, Bowie aveva detto in un’intervista dell’aprile 1971 a Rolling Stone: “Ciò che la esprime può essere serio […] ma come medium la musica non dovrebbe essere indagata, analizzata o presa così seriamente. Credo che debba essere agghindata come una prostituta, una parodia di se stessa. Dovrebbe essere il clown, il medium-Pierrot. La musica è la maschera indossata dal messaggio. La musica è il Pierrot e io, il performer, sono il messaggio

Bowie, lettore accanito di Derrida, oltre che di molte altre cose, in queste dichiarazioni apparentemente opposte dove il suo corpo-maschera-cornice-dispositivo da medium diventa messaggio, sembra in realtà aver ben presente la tesi espressa da Marshall McLuhan nella prima metà degli anni sessanta, secondo cui: “Il contenuto di un medium è sempre un altro medium. Il contenuto della scrittura è il discorso, così come la parola scritta è il contenuto della stampa e la stampa quello del telegrafo“.

È un aspetto importante per arrivare al modo in cui Bolter e Gruisin nel loro fondamentale “Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” interpretano l’eredità di McLuhan in quell’idea di ibridazione che conserva logiche diverse e anche contrarie in uno spazio di convivenza che ne mantenga le frizioni senza operare una sintesi. Non è quindi solamente lo scenario dei nuovi media digitali l’oggetto della rimediazione, dove con il termine si intende “la rappresentazione di un medium all’interno di un altro“, ma tutto il tracciato genealogico dal Rinascimento in poi.

Bowie sembra aver intuito, con una prassi esperenziale posseduta dal senso di molteplicità e ipermediazione, che la discontinuità tra un media e l’altro consente a chiunque di prendere un pezzo della “stella” e decontestualizzarla tra diverse espressioni mediali, adesso anche private, assumendone il controllo. Da una parte le mille incarnazioni dell’artista e i molteplici dispositivi che mette in correlazione, dall’altra la possibilità che lo spettatore/ascoltatore/fruitore compia un percorso di consapevolezza proprio in virtù di questa frammentazione: le logiche metatestuali, anche quelle più banali, dovrebbero consentire un distacco tra i diversi stadi di artificio della realtà rappresentativa, anche quella della cornice “social”. Sfortunatamente resistono le tentazioni tribali.

Sono quindi le finestre di Ashes to Ashes, proiettate avanti e indietro nello spaziotempo e all’interno del loro stesso guscio in direzione convergente ma anche contrastante; sono tutte quelle schegge che escono fuori dai contesti mediali preposti ad accogliere la sperimentazione artistica, per approdare nel territorio ibrido dell’informazione: teatrino con presunzione di realtà.

Tre anni fa il Guardian intervistava una serie di artisti che avevano incrociato la vita di David Bowie mettendo insieme le loro testimonianze. Tra i coccodrilli e le ghiottissime occasioni che hanno scatenato la stampa e i media di tutto il mondo nella corsa all’aneddoto bowiano da associare al proprio advertising,  l’articolo è stato rispolverato. Il racconto di Lindsay Kemp descrive la relazione artistica e affettiva con Bowie subito dopo averlo sentito  far l’amore con Natasha Korniloff, sua collaboratrice, dall’altra parte della parete: “Natasha non sapeva del mio rapporto con Bowie. Bevvi un’intera bottiglia di whiskey e mi precipitai con la bicicletta verso il mare, ma l’acqua era così fredda da costringermi a tornare, barcollando, verso il teatro. Lì mi tagliai le vene. Mi trovarono accasciato sul pavimento. Poche ore dopo esser stato portato all’ospedale, ero sul palco, mentre il sangue colava sul mio costume di Pierrot; un effetto meravigliosamente drammatico, ma ero perdutamente innamorato

Per quanto sia possibile credere al dolore e all’ossessione di Kemp, il racconto sembra provenire dalla raccolta del Pierrot Narcisse scritta da Giraud, tanto da venir rimediato in una circolazione caotica del testo che nei giorni successivi all’annuncio della morte di David Bowie si è intensificata con le appropriazioni, legittime e illegittime, di molteplici mitologie che hanno assunto altrettante derive devozionali. Tutto questo nonostante la continua messa a morte di cornici, dispositivi e cataratte della visione, che Bowie ha elaborato con estrema libertà, ma anche con quella lucidità che per l’ultimo atto gli ha consentito di ridurre la proliferazione dei segni senza spegnerne la potenza combinatoria.

Un gesto d’amore e di responsabilità rarissimo che si è manifestato attraverso il ripristino di un archetipo ritualistico, sicuramente riferito a tutta una stratificazione di mitologie bowiane, letterarie, filosofiche più o meno riconoscibili, ma strettamente legate al rito della loro stessa cancellazione. Vicinanza e condivisione quindi ma anche il contrario, in contrasto, grazie ad un  filtro rappresentativo, necessario per elaborare qualsiasi distacco e allo stesso tempo attivare qualsiasi interpretazione individuale.

È un modo sorprendente di utilizzare la rete, contro la tendenza che ci vede tutti impegnati a raggiungere la totale trasparenza del mezzo, tra le rimediazioni certamente quella più praticata e che con l’illusione dell’immediatezza come gesto, nasconde la macchina celibe della sorveglianza, senza che sia possibile attivare una distinzione davvero tridimensionale dei piani di lettura. Bowie in qualche modo ha sempre utilizzato il veicolo audiovisivo come primo seme da cui far germinare una serie di idee, un rizoma che anche in questo caso ha moltiplicato “Blackstar“, l’album, in una costellazione di letture private, pubbliche, ipermediali, senza la necessità che vi sia un’ontologia autoritaria che riconduca il senso ad una qualche origine.

Del resto “Don’t believe in yourself  | Don’t deceive with belief  | Knowledge comes | with death’s release” per quanto “lontano” nel tempo e troppo spesso associato al pensiero di Aleister Crowley semplicemente perché dichiarato in apertura, si spalanca, anche narrativamente, verso altre visioni che poco hanno a che fare con quella che Derrida chiama “la metafisica della presenza”. Espropriare, espropriarsi, ex-appropriarsi. In un’intervista realizzata da Antonello Colimberti per RaiSat Extra tra il 1996 e il 1997 Elémire Zolla parla dell’indecifrabilità del reale utilizzando una logica della differenza e di distanza dalla cosa-persona-testo che non è così in contrasto con il pensiero di Derrida, lo diciamo in virtù del propellente eretico che ci ha spinto a scrivere questo lungo viaggio amorevole intorno al cosmo Bowie: “Non credo che esista un altro mondo oltre a questo. Esiste questo mondo, nei vari momenti in cui si rivela. Pensare a un altro tipo di esistenza dovrebbe presupporre la permanenza della nostra persona. Uno dei primi insegnamenti del buddhismo è che la persona non esiste

Siamo assaliti da migliaia di immagini legate ad altrettante ideologiedice Jonathan Barnbrook, autore di molti degli artwork per David Bowie incluso tutto il design che ha accompagnato la promozione di Blackstar e che costituisce le edizioni CD e in vinile – Il solo modo per contrastare questo è con la semplicità e la chiarezza. E per semplice non intendo leggibile, perché qualcosa di semplice può essere ancora aperto alle interpretazioni

Barnbrook parte quindi da una forma semplice e da una serie di elementi immediatamente riconoscibili che possano interagire con i diversi supporti e media di riferimento. I social network, l’artwork del cd e quello delle edizioni in vinile.
Mentre gli elementi grafici sul CD sono collocati su uno sfondo bianco, il vinile è interamente nero (gatefold) con la stella formata da un ritaglio che lascia intravedere l’oggetto. Torneremo più avanti sulla struttura del booklet di 16 pagine inserito nel vinile e sugli elementi grafici che lo compongono (N.d.a. la copia in nostro possesso è quella vinilica limitata a 5000 copie, non abbiamo ancora visto il cd per eventuali confronti). La griglia, che è stata diffusa tra gli elementi grafici costitutivi anche via web, per Barnbrook rappresenta il modo in cui la materia influisce sullo spazio-tempo. Il font con cui è scritto il nome “David Bowie” sotto la stella si chiama “Virus Deja Vu” e sarà presto disponibile per un utilizzo open source proprio per essere ricombinato liberamente; ogni lettera del font è in realtà formato da uno o più elementi costitutivi della stella stessa.

Se tecnicamente si tratta di un carattere unicode, Barnbrook spiega che lo scopo è quello di trovare un segno sintetico e allo stesso tempo possibile, l’evoluzione del concetto di emoticon come linguaggio componibile; la logica è chiaramente quella del rinvio e non quella della “presenza”.

La versione in vinile in nostro possesso contiene un frammento della costellazione di Orione nella parte interna apribile, affiancata ad una delle foto di Bowie diffuse durante il lancio dell’album. Per frenare l’emorragia di interpretazioni cospirazioniste, i riferimenti sono ovviamente numerosi e allo stesso tempo puntano sempre verso altro se combinati con altri elementi disseminati nel booklet. Astronomia, Fisica, filosofia, mitologia, occultismo sono tutte tracce possibili ma non ha alcun senso elencarle se non in un percorso che trovi confluenze e deviazioni, sovrapposizioni ed omissioni, ma ci vorrebbe un altro articolo.

Più sorprendente ci è sembrato un piccolo easter egg visibile solo con la luce incidentale sulla superficie di una pagina interna al booklet. Al momento della diffusione dell’articolo nessuno ne ha parlato nella rete internazionale. I segni stellati dentro ogni pagina del booklet sono come decalcomanie lievemente in rilievo rispetto alla carta (varnished) che è di colore nero, stessa cosa per i testi. Leggerli è quindi complesso perché è necessario utilizzare una fonte di luce che rifletta direttamente i caratteri rispetto al cartone, e se ci consentite ci è sembrato bellissimo e se si vuole suggestivo come il raggio di luna pallida che riflette sul costume nero del Pierrot Lunaire di Giraud. In una di queste metamorfosi stellate diversissime per ogni pagina e combinate con il font di Banbrook ce n’è una di forma circolare molto ampia con un disegno “etched”, quindi inciso, invisibile ad occhio nudo, ce ne siamo accorti dopo un paio di giorni e si vede sempre inclinando l’oggetto verso la luce. (AGGIORNAMENTO 21-01-2016: La versione CD, che abbiamo potuto visionare solo adesso, riporta lo stesso disegno della placca, ben visibile anche a occhio nudo e stampato sopra la metamorfosi stellare invece che applicato con il metodo dell’incisione)

L’incisione è il disegno che abbiamo messo in copertina per questa lunga ricognizione e si riferisce alla Placca del Pioneer (o Pioneer Plaque) quindi un insieme di segni più complessi che ha un preciso rimando storico, ma rispetto al quale, anche in relazione alla creatività di Bowie, le narrazioni potrebbero essere molteplici. L’immagine fu collocata originariamente dalla NASA a bordo delle sonde Pioneer 10 e 11 nel 1972 e nell’anno successivo. Oltre ad un uomo e una donna nudi, viene rappresentata la posizione relativa del sole rispetto al centro della galassia e di 14 pulsar. Altri elementi riguardano le proporzioni della navicella messe in correlazione con quelle umane ed infine lo schema del sistema solare rispetto al quale è indicata la traiettoria della sonda Pioneer. La placca fu progettata da Carl Sagan come vero e proprio message in a bottle nel caso la sonda fosse stata intercettata da forme di vita extra-terrestre.

Rispetto a tutte le narrazioni possibili che si sono sviluppate negli anni intorno alla galassia Bowie, talvolta con un preoccupante approccio fideistico (si legga questo piccolo e raro esempio di giornalismo intelligente a cura di Paula Young Lee), ci piace pensare che La carte postale  arrivata qui mi dica “sei tu l’alieno?” con la speranza di poterla inviare oltre.

Seeing more and feeling less
Saying no but meaning yes
This is all I ever meant
That’s the message that I sent
(David Bowie – I Can’t Give Everything Away)

Questo articolo è dedicato alla mia bisnonna, Giovanna Ragionieri

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker, un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana e un Critico Cinematografico iscritto a SNCCI. Si occupa da anni di formazione e content management. È un esperto di storia del videoclip e del mondo Podcast, che ha affrontato in varie forme e format. Scrive anche di musica e colonne sonore. Ha pubblicato volumi su cinema e new media.

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Bowie sembra aver intuito, con una prassi esperenziale posseduta dal senso di molteplicità e ipermediazione, che la discontinuità tra un media e l'altro consente a chiunque di prendere un pezzo della "stella" e decontestualizzarla tra diverse espressioni mediali, adesso anche private, assumendone il controllo. Da una parte le mille incarnazioni dell'artista e i molteplici dispositivi che mette in correlazione, dall'altra la possibilità che lo spettatore/ascoltatore/fruitore compia un percorso di consapevolezza proprio in virtù di questa frammentazione. Verso la galassia Blackstar

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