Home alcinema This Teacher di Mark Jackson: Hafsia Herzi nell’america islamofoba, la recensione

This Teacher di Mark Jackson: Hafsia Herzi nell’america islamofoba, la recensione

Al suo terzo lungometraggio, Mark Jackson continua a raccontare figure femminili, questa volta spingendo in modo più estremo sullo studio del personaggio. Torna a collaborare con Hafsia Herzi dopo “War Story”, a cui affida il ruolo centrale e l’opportunità di esprimere al massimo le sue qualità come attrice. La sceneggiatura, scritta dallo stesso Jackson a quattro mani con Dana Thompson, ritaglia uno spazio narrativo concepito appositamente per il talento performativo della Herzi, qui spinta a percorrere una propria fenomenologia in grado di modellare il senso del film, nella relazione tra gli ambienti e il suo approccio fisico all’interpretazione.
Poco importa che ad alcuni critici l’invettiva di Jackson nei confronti dell’America Trumpiana sia sembrata schematica e banalizzante, perché nella semplicità dell’ordito c’è tutto il coraggio di affidare il senso della perdita e dell’alienazione esperita in terra straniera, ad un’attrice in grado di riscrivere la scena di volta in volta.

Lo scheletro narrativo cerca consapevolmente di impostare una drammaturgia che consenta di attraversare lo spazio con quella libertà desunta dal cinema di Cassavetes o dal girare a vuoto che caratterizza i personaggi in alcuni film di James Toback. Jackson non cambia il nome dell’attrice franco-tunisina, quasi per accentuare la sovrapposizione tra personaggio e interprete.
Hafsia può quindi costruire il suo percorso usando un linguaggio che collide con quello dominante, mentre il corpo costretto in una cornice urbana ipocritamente ostile, esplode.

Giunta a New York per incontrare Zarah, una vecchia amica d’infanzia, Hafsia percepisce da subito la difficoltà a relazionarsi con la comunità di artisti e di attori che gravitano intorno all’ambiente di riferimento. Zarah ha addomesticato le origini del suo nome in Sarah, mentre Hafsia vive l’incertezza relativa al proprio futuro in modo bruciante, rispetto alla disinvoltura con cui l’amica gestisce i propri affari e le pubbliche relazioni.

Jackson pur non insistendo in modo esplicito sulla percezione di una realtà sostanzialmente islamofobica, dissemina di tracce la prima parte del film e le individua insieme allo sguardo di Hafsia, attraverso un volantino di propaganda sui mezzi pubblici o nella conversazione allusiva e strisciante con l’ospite di un party organizzato da Sarah.

Questa condizione di progressivo isolamento esploderà nella seconda parte del film, quando Hafsia deciderà di ritirarsi in uno chalet nella foresta, entrando inizialmente in contatto con il gestore che le propone l’affitto temporaneo. Jackson insiste sulla dimensione economica e su un’empatia distorta, fondata sullo sfruttamento dello spazio vitale e sull’accesso ad una serie di comfort a pagamento. Tutto è acquistabile, ma le possibilità di Hafsia non le consentono di avere elettricità, di ricaricare il cellulare, di utilizzare una serie di benefit esclusi dalla struttura che può permettersi. Jackson in questo senso costruisce un breve apologo survivalista, dove la stessa Hafsia percepisce il contatto con la natura in termini contraddittori. Mentre all’esterno una bestia feroce sembra dominare l’oscurità e impedire alla donna di uscire per respirare, confinandola in uno spazio claustrofobico soprattutto quando non riesce a far funzionare il tiraggio del camino, sarà proprio il contatto con la foresta, allo stremo delle forze, ad amplificare la ricerca di una visione interiore, in opposizione ad un contesto sociale che sembra aver contaminato tutto con il maggiore o minor accesso alle risorse economiche.

Quando Rose (Lucy Walters) e il marito poliziotto Darren (Kevin Kane) si materializzeranno nello chalet adiacente dopo una notte difficile per Hafsia, il film prenderà una piega apparentemente più didascalica. L’ospitalità dei due viene rappresentata come un’empatia necessaria, quasi sempre sopra le righe e condotta sul filo dell’esplosione. L’alcool è l’unico collante a guidare la conversazione tra i tre personaggi e quello che consente alla stessa Hafsia di lasciarsi andare, fino a quando non rivelerà di essere mussulmana,cambiando la percezione della coppia.
La dinamica del sospetto e del pregiudizio assume un tono violento ed è abbastanza chiaro quanto Jackson giochi, anche in termini performativi, con la distorsione di alcuni stereotipi, esacerbati dal contrasto linguistico che si viene a creare tra Hafsia e i due ospiti.

Eppure, nonostante la dinamica fortemente teatralizzata, “This Teacher” riesce a trattenere una violenza allusiva e una paranoia strisciante, portate sul bordo della deflagrazione, senza che accada davvero qualcosa, come nelle migliori piece di Tracy Letts.

Ed è proprio in questo contesto forzato, come era accaduto entro i confini della foresta, che Hafsia Herzi perde totalmente il controllo, riuscendo ad esprimere rabbia, dolore e alienazione in una prova memorabile che catalizza tutte le energie e le potenzialità del film.
Spirito posseduto e allo stesso tempo destinato a spossessamento, Hafsia interpreta la paranoia che vorrebbero attribuirle, forzando il corpo ad incarnare gesti e parole d’odio,  facendosi travolgere da una violenza catartica, simmetrica alla sua ricerca dello spirito nel cuore della foresta.

Sono due illusioni, due visioni della psiche, opposte e coincidenti, che diventano immagine attraverso la parola e il corpo, come l’ingiuria scagliata contro un nemico invisibile,  capace di modificare la realtà.

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