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Alki Alki di Axel Ranisch: la recensione

 

In “Rosakinder” (2011), il film-tributo a Rosa von Praunheim assemblato da cinque suoi allievi – Chris Kraus, Robert Thalheim, Julia von Heinz, Tom Tykwer e Axel Ranisch – quest’ultimo viene investito da Rosa del ruolo di suo erede. Tra i cinque, è l’unico a essere gay, ad apprezzare il cinema fatto con due marchi e a stare indifferentemente davanti e dietro l’obiettivo. Va detto che Ranisch, talento eclettico che si guadagna da vivere come attore, nei panni di regista e produttore dà dei punti al maestro. Vediamo come.

“Alki Alki” è la terza produzione «ufficiale» targata Sehr gute Filme (‘ottimi film’), il clan capeggiato da Ranisch del quale fa parte anche l’attore e co-sceneggiatore Heiko Pinkowski. Le altre due sono “Dicke Mädchen” (2011), storia di periferia (est) berlinese con una coppia di omoni che scoprono di volersi bene mentre si prendono cura della madre non più autosufficiente di uno dei due, e il favolistico “Reuber” (2013). A questa lista va aggiunto il titolo di maggior successo finora diretto da Ranisch, prodotto dalla ZDF: “Ich fühl mich Disco” (2014), un’altra storia di coming out (stavolta adolescente) e strazi familiari sullo sfondo della Berlino proletaria, con una colonna sonora Schlager – cioè allegra e trashissima.

La vena di Ranisch è senz’ombra di dubbio la tragicommedia. “Alki Alki” tratta di alcolismo (e in generale delle dipendenze) con grande franchezza, ma anche con lucidissimo brio. L’idea di base del film è realizzare uno strampalato buddy movie incentrato sul rapporto esclusivo con la bottiglia, che finisce per fare a pezzi una famiglia intera. C’è un colpo di scena, che si palesa entro mezz’ora (a seconda dell’attenzione dello spettatore). Non è il twist clamoroso stile “Sesto senso” o “Ich seh seh”, che ridefinisce tutto quello che abbiamo visto. Una volta scoperto, diventa il motore del film.

Realizzato in venti giorni con una piccola troupe e un cast affiatatissimo (arricchito dalla presenza del «dreseniano» Thorsten Merten e di Dietrich Brüggemann in un cameo dark), “Alki Alki” rispecchia in toto il metodo Ranisch: riprese cronologiche (per quanto possibile), spazio all’improvvisazione e camera mobile. L’unico movimento di macchina degno di nota, un’ascesa verticale fatta con la gru da classico finale hollywoodiano, viene subito ridicolizzata nella scena successiva, che vanifica ogni speranza di happy end. È questo il tocco tragicomico di Ranisch, capace di affrontare temi delicatissimi con ironia e disinvoltura. I suoi sono personaggi fallimentari, fragili, in crisi perenne, ma allo stesso tempo credibili nella loro vitalità.

Nei titoli dei film diretti da Ranisch non si legge mai «regia», bensì Spielleitung, termine desueto e tedeschissimo usato, per intenderci, nelle produzioni nazionalsocialiste. Far campeggiare, oggi, il termine Spielleitung su uno schermo cinematografico, equivale a una molotov. Un’ultima notazione sulla colonna sonora, composta da brani acustici di Die Tentakel von Delphi: il cantante (e attore) Robert Gwisdek entra in scena armato di chitarra, si siede in un angolo e commenta, per strofe, quel che sta accadendo. Mentre gli altri restano immobili. Un escamotage da commedia d’altri tempi… Anche per questo “Alki Alki”, sehr gute Filme #3, ha la stoffa del piccolo classico, anarchico sì ma con i guanti di velluto.

Rubrica: Nuovo Cinema Tedesco. Oggi!

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